Una lettera all'Archivio

Pino Mennea, 07/11/2021

Materiale datato: 07/11/2021

Riproduciamo qui una lettera di Pino Mennea a Ottavio Marzocca e all'Archivio de Feo.

Nicola Massimo de Feo « con gli occhiali scuri e la maglia col collo alla dolce vita sotto l’abito, alla maniera degli esistenzialisti e dei cantautori alla Gino Paoli » (Pino Mennea)
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Torino, 4 settembre 2021

Ciao Ottavio,

navigando tempo fa su internet alla ricerca di novità librarie, nella saggistica di filosofia mi sono imbattuto in alcuni titoli il cui autore è Nicola De Feo.

Approfondendo la ricerca, sono venuto a conoscenza dell’iniziativa che all'Università hai preso, insieme a un gruppo di studenti, di costituire un “Archivio De Feo”.

E’ stato un atto spontaneo mettere in fila i ricordi che ho della figura di un grande intellettuale e compagno che ha influito su intere generazioni di ragazzi, portandoli a iscriversi al Corso di Filosofia e seguire le sue affollate lezioni.

E’ vero che il punto di vista di chi ricorda rischia di turbare l’obiettività del ricordo stesso, come dici bene nella ricostruzione biografica e intellettuale che ne fai (L'esperienza di Nicola Massimo De Feo), e che ho scaricato, insieme agli altri scritti di e su De Feo, e letto con interesse. Ma, purtroppo, il mio ricordo si riferisce solo alla persona, che ho conosciuto quando ero liceale e lui, a 27 anni già assistente di filosofia, intorno alla metà degli anni ’60, ha tenuto una splendida conferenza su Gramsci, nel trentennio della scomparsa, nella sala consiliare della biblioteca comunale di Barletta. Mi ha colpito per la conoscenza approfondita del tema, con quegli intercalari frequenti e tipici del suo eloquio e quel fascino che emanava la sua figura, con gli occhiali scuri e la maglia col collo alla dolce vita sotto l’abito, alla maniera degli esistenzialisti e dei cantautori alla Gino Paoli.

Qualche settimana dopo, io, insieme ad altri compagni dell'epoca, ci siamo recati in casa di De Feo, passando per l’anticamera dove troneggiava l’enorme busto del Duce come un patetico monito della figura paterna, incombente su chi vi passava davanti. Chissà come avrà giudicato le domande che questi cazzoni di studentelli gli ponevano sulla compatibilità del sistema bancario con una società socialista.

Ma ben presto avremmo cambiato idea sul sistema sovietico e su quello complessivo del mondo, grazie al ’68 e alla contestazione globale.

Mi sono ritrovato anche in alcuni episodi da te ricordati. Abitavo in una traversa di via Roma e, ragazzino di 8 anni nel ’56 (l’anno della grande nevicata), ho visto sfilare, nel terribile silenzio rotto solo dalle note musicali e dal pianto dei famigliari, i carri funebri di quei braccianti uccisi negli scontri, per quella stessa via che avrebbe visto sfilare anche i carri dei morti nel crollo del palazzo di via Canosa nel ’59. Ho assaggiato anch’io il contenuto di quei “pacchi”, che la chiesa distribuiva tramite le parrocchie alle famiglie come voto di scambio, in cui c’era della pasta, barattoli di farina lattea e del formaggino comunemente chiamato “messicano”.

Della sua ricerca filosofica, politico-esistenziale, che è anche militante, non ho una conoscenza aggiornata agli ulteriori sviluppi, ma limitata a due suoi scritti, donatimi da Saverio Di Giorgio in quegli anni: un libretto frutto di un suo intervento ad un convegno di filosofia, intorno ad un “progetto per l’unificazione del sapere” e la sua densissima tesi di laurea, pubblicata col titolo Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger: L’ontologia fondamentale, che ho conservato come una reliquia, fino al giorno in cui sei venuto a casa mia insieme a un compagno e l’hai richiesta per De Feo. Non ho mai saputo quale fosse lo scopo, ma te l’ho consegnata molto volentieri. Ne ho rivista la copertina in internet (chissà se non fosse la stessa che io avevo), ma ne ho solo potuto constatare la non disponibilità. È in ristampa? Mi piacerebbe riacquistarla.

Ho ritrovato la presenza di De Feo nei vari collettivi, gruppi e partiti politici cui ha partecipato col suo appoggio critico, la sua coerenza intellettuale, o anche solo con lo strumento, poi tanto contestato, del ciclostile, e nonostante l’impegno universitario. Era un vero piacere ascoltarlo su temi riguardanti la politica locale o quella nazionale, esplicitati con un rigore teorico che era l’autentico supporto al suo impegno pratico; o assistere ai suoi interventi in consiglio comunale, al tempo della sua denuncia della corruzione amministrativa nell’ospedale di Barletta, mentre gli avversari politici, in mancanza di argomenti, lo denigravano per gli occhiali scuri che indossava e per essere “comunista”.

Ricordo (ma non vorrei scadere in un amarcord nostalgico) le riunioni interpartitiche che si facevano nella sede del PSI – il cui segretario con la testa diceva no anche se diceva sì –, durante le quali De Feo (che, parlando del film di Antonioni Blow up, lo criticava come borghese), su temi politici più specifici veniva attaccato col termine “comunista”, quasi fosse un insulto (i crimini stalinisti erano alle spalle e quelli di Pol Pot e delle BR dovevano ancora maturare).

Ma cosa significa quell’etichetta: “comunista”, rivolta a De Feo (penso per invidia di una evidente superiorità intellettuale) come un marchio d’infamia?

Credo (e non si può non concordare con l’ampia analisi che ne fai nella ricostruzione del suo iter intellettuale, dato che l’hai conosciuto meglio di tutti) che egli trovasse nella sfera politica l’innesco e il reagente di quelle “istanze” intellettuali, filosofico-esistenziali, che alimentavano la sua analisi delle contraddizioni di sistema e la ricerca di un aggancio teorico tra la resistenza anticapitalistica e antimperialistica con una diffusa avanguardia di classe.

Nell’orizzonte empirico, limitato all’osservatorio cittadino, il suo interesse era diretto alla mutevole configurazione di collettivi, gruppi spontanei, extra-parlamentari che venivano a crearsi sul territorio, come, per esempio, dopo la sua rottura col PCI, nel rapporto coi gruppi del PSIUP e del Manifesto in cui ho militato, o di Potere Operaio.

Ricordo l’iniziativa di una “inchiesta” sulla condizione del nuovo proletariato urbano sul modello dei Quaderni Rossi di Panzieri e Tronti, calata sul territorio nelle lotte a fianco dei lavoratori della terra, della Cementeria, della Cartiera, della Montedison, degli studenti e di altri settori economico-sociali, in netta rottura con un’impostazione ancora tradizionale di rivendicazioni.

Erano i segnali di una crisi sociale che reclamava soluzioni, che però non potevano consistere in un travaso della classe operaia dalla CGIL nel sindacato rosso del PC marxista-leninista, come sognava un personaggio naif della scena locale; né in un lotta-continuismo gruppettaro che si configurasse in un modello di società liquida.

Devo dire che quello a cavallo degli anni ’60-’70 è stato un decennio di iniziative e manifestazioni culturali, sia di piazza che in biblioteca comunale, in appoggio alle conquiste politiche della sinistra, nel campo dei diritti civili, in un contesto di vivacità culturale e politica, che ha alimentato una coscienza civile attuale e viva negli strati più ampi della popolazione, che però si è riassorbita in un irreversibile riflusso.

In seguito, non ho più saputo nulla della presenza di De Feo nella situazione di Barletta, tranne, penso, che coltivasse un rapporto indiretto col territorio d’origine o fosse concentrato nell’insegnamento universitario, suo terreno d’elezione di impegno politico militante. Né ho avvertito la direzione intrapresa nei suoi campi di ricerca (che scopro solo ora), se non da una mia percezione ambientale superficiale.

Ma non posso negare che conoscere De Feo è stato molto importante e determinante per le mie scelte successive.

L’ho sempre ammirato per la lucidità e la passione che metteva nelle sue analisi. Ciò che ammiravo in lui era uno stato di grazia originario sostenuto da una vastissima cultura che gli permetteva di scendere prima di altri nelle opache contraddizioni dell’individuo e della società, per coniugarle con gli esiti delle analisi marxiane, dall’interno e attraverso categorie e percorsi culturali eterogenei ed eretici; quella innocenza tipica dell’intellettuale rivoluzionario, che è anche un “rischio” non esente da “colpa”, che la violenza sociale genera a livello di percezione della coscienza, con costi personali talvolta duri da sopportare, specie quando gli stessi ruoli sociali in cui si rappresentano le contraddizioni delle categorie dell’economia politica vengono da noi stessi criticati e rimessi radicalmente in discussione. Stando almeno a quanto ho letto nei saggi pubblicati nell’“Archivio De Feo”.

E tuttavia non posso non esprimere una mia riserva critica, che è chiaramente esplicitata nel saggio, proposto sul sito dell'Archivio, che Annalisa Dimola dedica a Semerari e De Feo, a proposito del lessico e della struttura sintattica della prosa di De Feo, ma specialmente della composizione organica concettuale del discorso defeiano. Faccio due esempi minimi con le parole dell'autrice: “l’identificazione del pensiero negativo di Nietzsche, Heidegger e degli altri autori con il sommovimento destabilizzante della ‘moltitudine’ globale, per dirla con Negri”; o “l’effettualità politica delle azioni che il filosofo riconosce come unica possibilità di affermazione della dimensione negativa dell’esistenza”. Non mi spingo oltre, perché le osservazioni critiche della studiosa sono chiare. Sono, invece, d’accordo sull’istinto vitale positivo che permea l’azione rivoluzionaria distruttiva e che tu rivaluti nel percorso intellettuale di Nicola.

Per quanto mi riguarda, orfano di un riferimento politico, negli anni '70, dopo un periodo di latenza in cui ho trascurato lo studio, acuita dalla percezione di uno scollamento che nella situazione sociale si determinava tra militanza politica e deriva terroristica, tornato alla vita civile dopo il servizio militare, tra un saltuario impegno nel PCI e una ricaduta nel privato, ho ripreso il mio rapporto con l'università e per finire gli esami e per chiedere la tesi di laurea.

Più volte sono stato nello studio di De Feo per concordare un argomento.

Il 16 marzo del ’78 mi trovavo al policlinico di Bari per raccogliere sul libretto una firma dimenticata da un prof. di psichiatria con cui avevo sostenuto l’esame. E lì, nel corridoio, ascoltai dal televisore la notizia del rapimento di Moro e dell’uccisione della sua scorta, con le solite richieste di Almirante dell’intervento militare e della pena di morte.

Mi recai in facoltà, dove, nel suo studio tappezzato di manifesti dell’Autonomia, De Feo mi venne incontro, dandomi la notizia del rapimento. Io mi sorpresi a raffreddare il suo stato d’animo (era la prima volta che tra noi prendeva forma un dissenso non tanto latente), quando gli manifestai le mie perplessità, dato che l’azione proveniva da sinistra e poteva prestarsi a una lettura provocatoria, come quando ci buttarono tra i piedi i cadaveri di Pinelli, di Feltrinelli e del commissario Calabresi, con le violenze e gli atti di terrorismo che precedettero e ne seguirono.

Comunque, con quella cortese propensione, che gli era connaturata, a dare fiducia e sostegno alle richieste dei suoi studenti (ma altrettanto netto in qualche rimprovero che ne ho ricevuto), concordai un argomento, inizialmente sui Quaderni Rossi, che poi mutai nei mesi seguenti nel contenuto, con l’ipotesi che la sfera del “mercato” e dello “scambio”, non della “produzione”, fosse l’obiettivo critico di fondo della marxiana ricostruzione del “concetto dialettico” di “capitale”.

L’anno dopo (avevo una disperata fretta e mi premeva prendere una decisione che mi avrebbe portato a Torino nell’ambito dell’insegnamento) ho presentato una tesi sulla forma-crisi della società borghese nella dialettica di Hegel e Marx, di cui Nicola è stato relatore.

E’ stata l’ultima volta che l’ho visto.

Molti anni dopo, durante il periodo delle vacanze estive, purtroppo ho saputo della morte prematura di Nicola, mentre attraversavo Piazza Roma, da manifesti funebri affissi a cartelloni.

Per il resto ho trascorso questo più che quarantennio (ora sono un nonno in pensione), vedendo crescere i mostri morali, ecologici e terroristici che insidiano il nostro tempo senza essere minimamente scalfiti dalle politiche riformistiche dei governi. Neanche “per il rotto della cuffia”, come diceva un contadino di Piazza Roma.

Poi, quando ho scoperto in internet i titoli dei libri da lui scritti in questi decenni e ciò che tu stai facendo per mantenerne viva la memoria e l’opera, con l’insegnamento universitario, i tuoi libri, la ricerca attiva e militante in filosofia, non ho potuto fare a meno di ripercorrere il tempo circolare della memoria e testimoniare il ricordo di questo gigante della cultura, mite e rigoroso, che ha insegnato a intere generazioni a smontare e demistificare le tecniche del pensiero fin dentro la dimensione esistenziale dell’individuo e della società. Spero di recuperare presto i libri che mi mancano, per colmare un vuoto intorno ad una personalità, come tu la descrivi, così complessa.

Ti saluto e ti auguro ancora buon lavoro

Pino Mennea