La crisi dell'umanità europea e il ruolo della ragione. Un dialogo con Giuseppe Semerari e Nicola Massimo de Feo

Annalisa Dimola, 15/04/2021

Materiale datato: 15/03/2021

Proponiamo un saggio di Annalisa Dimola, pubblicato sulla rivista «Logoi.ph – Journal of Philosophy», dedicato al rapporto tra Giuseppe Semerari e Nicola Massimo de Feo. Il testo, che procede da un'analisi comparata dei due filosofi dell'Università di Bari ad una loro «possibile sintesi», restituisce il quadro storico della facoltà barese entro cui Semerari e de Feo hanno sviluppato le loro rispettive teorie.

Ringraziamo l'autrice e Annalisa Caputo, fondatrice e direttrice scientifica della rivista, per averci concesso la riproduzione del testo.

S. A. Bortnyik, Komposition Schwarz-rot
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A. Dimola, La crisi dell'umanità europea e il ruolo della ragione. Un dialogo con Giuseppe Semerari e Nicola Massimo de Feo, in «Logoi.ph – Journal of Philosophy», VII, 17, 2021.

Per chi ha frequentato la facoltà di filosofia a Bari negli anni dieci del duemila, dopo due o tre lustri dalla morte di Giuseppe Semerari e Nicola Massimo De Feo, è forse un rammarico non aver conosciuto due personalità filosofiche così importanti. Si ha la sensazione di essere arrivati troppo tardi ad un appuntamento, ci si sente costretti a ricacciare dentro di sé alcune domande che si sarebbero volute fare, ci si sente vicinissimi ad un passato irraggiungibile che si rimpiange come un’occasione perduta.

D’altro canto, però, ci si sente liberi e potenti. Liberi di poter interpretare i testi come la nostra condizione storica, umana ed esistenziale ci suggerisce, senza che gli autori possano, dall’alto della loro autorevolezza, dirci: «Hai frainteso!». Ci si sente potenti manipolatori di pensieri ormai indifesi, di domande che siamo noi a pronunciare quando le sussurriamo mentre leggiamo, di risposte che parlano di noi e non più di chi quelle risposte le ha cercate.

Quello che si cerca di instaurare in queste pagine è un dialogo certamente asimmetrico con questi autori e, come tutti i dialoghi con delle pagine scritte e delle parole ferme, una lotta ad armi impari.

Il tentativo è quello di ripensare i concetti più importanti elaborati dai due filosofi e maestri, di utilizzarli per cercare di cogliere qualcosa della contemporaneità, di quella crisi dell’umanità europea che è stata al centro delle riflessioni di entrambi e che sentiamo non essersi risolta, ma anzi, sentiamo diventare sempre più acuta.

Leggendo le pagine di Giuseppe Semerari e Nicola Massimo De Feo emerge come, partendo da un punto di vista periferico come la città di Bari, siano riusciti a cogliere delle urgenze e delle problematiche fondamentali per la costruzione dell’identità europea, per la comprensione della sua storia e per la progettazione del suo futuro.

La periferia può offrire delle prospettive di osservazione originali e spesso insolite, ma il grande merito di questi due autori è di aver tenuto insieme il punto di vista europeo con quello meridionale, consapevoli che, nonostante le differenze, l’Europa e il Mezzogiorno italiano costituiscono un’ unica comunità o che almeno debbano tendere a questa costituzione.

Immaginiamo che De Feo abbia visto nei sommovimenti dei contadini e degli operai dequalificati di tutta Europa i contadini di Barletta e che Semerari, meditando sul concetto husserliano di vita anonima precategoriale abbia pensato al popolo minuto che anima le strade che circondano l’ateneo di Bari.

Condividendo con questi autori il punto di vista periferico di osservazione e l’aspirazione a comprendere la crisi dell’umanità europea, incerta sulla propria identità e sul proprio futuro, si è tentato di costruire un dialogo che mettesse al centro una questione che ci sembra decisiva: quella del rapporto tra razionalità e materialità, tra il discorso filosofico, scientifico e politico e il mondo della vita anonima che è la fonte originaria di questi discorsi, ma allo stesso tempo è una realtà che solo un discorso razionalmente condotto può tematizzare. Oltre a questa aspirazione teorica, condividiamo l’esigenza pratica di una riforma, di un progetto di cambiamento della cultura e della società europee, che sia De Feo che Semerari, seppure in modo molto diverso, ritennero fondamentale per il superamento di una crisi economica, sociale e culturale che affligge ancora oggi il nostro continente.

1) La filosofia dal basso di Giuseppe Semerari: razionalità, intersoggettività e mondo della vita

La filosofia dal basso è un progetto filosofico che cerca di rispondere al problema del rapporto tra discorso razionale, scientifico e filosofico, e mondo precategoriale, ambiente in cui gli uomini sembrano condurre la propria vita secondo principi che non sono puramente razionali, quanto piuttosto rispondenti a necessità pratiche immediate e spontanee. L’indagine intorno a questo rapporto non costituisce un’esigenza esclusivamente teoretica, ma anche pratica, etico-politica. Non si tratta, per Semerari, ‘semplicemente’ di scoprire quale sia l’origine del discorso razionale, se essa sia trascendente o immanente, e quale tipo di relazione intrattenga con l’esistenza precategoriale, se nasca dal mondo della vita o se lo sussuma all’interno delle sue categorie, ma si tratta di indagare il rapporto che il discorso razionale deve instaurare con il mondo della vita, l’atteggiamento che la ragione deve assumere nei confronti della materialità, della spontaneità dell’esistenza non razionale o pre-razionale. Soprattutto si tratta di stabilire di chi parliamo quando parliamo di ‘ragione’. Il discorso razionale non è, per Semerari, un discorso impersonale, ma un atteggiamento conoscitivo e comunicativo degli uomini all’interno di una comunità storicamente determinata. Perciò, quando parliamo di ragione non stiamo parlando di un’entità universale e astratta, ma della comunità umana dotata di determinate facoltà e inserita all’interno di un orizzonte concreto. Quando sosteniamo che la ragione deve avere un certo atteggiamento nei confronti del mondo precategoriale significa che i filosofi, gli scienziati, i politici e gli intellettuali devono progettare delle pratiche di comportamento concrete di cui sono responsabili. In Semerari la dimensione teoretica non è mai distinta da quella etica e politica se non per ragioni espositive. Dunque la scelta del ruolo della ragione, del suo compito storico, l’attestazione della sua crisi e la prospettiva di possibilità di uscita non sono appannaggio dello ‘spirito’, ma dei singoli uomini concreti che abbracciano una determinata concezione teoretica dell’esistenza, cui consegue una scelta etica e politica.

Nella raccolta di saggi del 1973 Filosofia e Potere[1] emerge l’idea della filosofia come scelta pratica: scegliere un orientamento filosofico piuttosto che un altro non è una mera questione accademica, ma risponde ad un’ esigenza personale del filosofo ed è sempre una scelta partitica.

La singolarità della ricerca filosofica è che essa dirompe al punto d’incrocio tra una esperienza vissuta in prima persona dal ricercatore e la condizione storica più generale e trans personale, entro la quale la sua esperienza e i suoi problemi sono situati e compresi[2].

La filosofia dal basso è, dunque, in prima istanza, una scelta tra due alternative che, secondo Semerari, costituiscono il primo passo che il filosofo compie nell’elaborazione del suo pensiero: la prima opzione è quella della filosofia descrittiva. La descrizione dello stato di cose non è propria soltanto delle scienze positive che ritengono di attenersi meritoriamente ai ‘dati di fatto’, ma anche di una tradizione metafisica che tende a legittimare il divenire storico riconducendolo ad un divenire trascendente, al dispiegarsi di una necessità divina. Tale filosofia descrittiva è apologia del potere: la necessità dei dati di fatto o dello spirito – senza trascurare le profonde differenze che intercorrono tra queste due impostazioni –implica l’immutabilità del reale e, di conseguenza, l’impotenza dell’uomo. La seconda opzione è quella della critica, ossia di un atteggiamento che tende a desostanzializzare la realtà, a farne uno spazio aperto e mutevole in cui non regna la necessità, ma la possibilità, sia oggettiva che soggettiva. La critica è opposizione al potere nella misura in cui ne individua i limiti, le menzogne e le prepotenze.

Il filosofo che guarda a queste due alternative compie una scelta insieme teoretica e politica. La scelta di Semerari non è ovviamente un banale schierarsi dalla parte del pensiero critico, ma è appunto l’elaborazione della filosofia dal basso come filosofia che si pone criticamente nei confronti della metafisica descrittiva, sia quella idealistica che quella positivistica, ma che non rinuncia alla fiducia nella capacità della ragione di prospettare all’uomo la possibilità di un’esistenza piena e autentica. Non solo la filosofia dal basso risponde all’esigenza di critica nei confronti di una certa tradizione metafisica, ma anche al bisogno di costruire un’alternativa. L’istanza critica e quella utopica fanno sì che la filosofia dal basso assuma un significato contestativo:

La contestazione è, per così dire, un contropotere esercitato come sospensione della validità di ciò che è oggettivamente dato, nella misura in cui esso impedisce l’instaurarsi di relazioni sociali di reciprocità e di forme di auto direzione[3].

I punti di riferimento teorici della filosofia dal basso sono soprattutto Marx e Husserl: Semerari vede nel materialismo marxiano e nella fenomenologia husserliana due filosofie critiche, antidogmatiche, desostanzializzanti, che sollevano la realtà dalla necessità immutabile cui è ricondotta dall’idealismo classico e dalle scienze positive e mettono in luce la complessa rete di relazioni da cui è costituita, i cambiamenti cui è sempre soggetta, la contingenza cui è sempre esposta.

Il materialismo di Marx mette in luce un aspetto fondamentale della società capitalistica contemporanea: il sistema di scambio che l’uomo ha creato a livello mondiale è diventato una potenza estranea all’uomo stesso, le sue leggi hanno assunto una validità non più riconducibile ai suoi bisogni e ai meccanismi della loro soddisfazione, ma si è ormai configurato come spazio autonomo di riproduzione del capitale. L’idealismo, sostenendo che la Ragione si dispiega secondo leggi che trascendono le azioni umane, rispecchia il mercato globale, ne diventa ideologia e apologia. Questa impostazione critica che Marx ed Engels elaborano a partire dall’Ideologia tedesca[4] è pienamente assunta da Semerari. L’alternativa tra descrizione e critica, tra idealismo e materialismo è anche alternativa tra mercato globale e comunismo, tra un sistema di scambio di merci e un sistema globale di soddisfacimento dei bisogni concreti e vitali dell’uomo. Nella filosofia di Marx, Semerari riconosce quella impostazione critica e utopica che egli stesso ha assunto come punto di partenza della sua filosofia. Un ulteriore merito che Semerari riconosce a Marx è quello di aver elaborato un pensiero scientifico, ossia un progetto razionale che, a partire dalle condizioni storiche concrete della società occidentale, ne prospetta un rovesciamento, un cambiamento totale e radicale. La filosofia di Marx costituisce una via d’uscita dalla cappa ideologica dell’idealismo e dalla tirannia del mercato globale:

Dall’idealismo si esce materialisticamente solo quando, abbandonati il formalismo e il positivismo, la scienza sia problematizzata sino al punto da riconoscerne le ragioni materiali a partire dai bisogni umani reali, di cui è, in linea di principio, soddisfazione razionale, e di vederne la specifica funzione alla quale assolve, con la propria organizzazione sintattica, nel processo di produzione e riproduzione dell’esistenza umana così come tale processo è storicamente strutturato, oggi, nell’ambito del mercato mondiale e nella dialettica di mercato mondiale e comunismo[5].

Punto fondamentale del rapporto tra discorso razionale e mondo della vita, tra ideologia della reificazione e critica della stessa, è il problema della crisi delle scienze europee. Nella Crisi delle scienze europee[6] Husserl individua il problema della crisi di scientificità delle scienze nella perdita del loro senso, nella dimenticanza della propria origine. Come lo spazio del mercato globale si distanzia e si rende indipendente dai bisogni dell’uomo, così il discorso scientifico diventa totalità astratta e autoreferenziale, in cui vengono considerati nella loro distaccata oggettività, ‘inseità’, i dati di fatto e in cui è completamente reciso il legame tra lo scienziato, l’ambiente in cui opera e gli oggetti che conosce.

L’alternativa fenomenologica permette di ricostruire il rapporto tra discorso scientifico e mondo della vita elaborando una nuova definizione di soggetto, di oggetto, di mondo ricucendo quelle separazioni operate dalle scienze positive. Nel discorso fenomenologico il soggetto non è più sostanza, ma intenzionalità, ossia coscienza di qualcosa, rapporto immediato con l’oggetto. Tale rapporto è immediato in quanto il soggetto è immediatamente essere-nel-mondo, dunque essere corporeo, dotato di un corpo vivo che si relaziona con il mondo che abita, con gli altri che incontra e che contribuiscono a definire la sua identità. Il soggetto fenomenologico è un Ich kann, un essere intenzionale che può conoscere e modificare l’ambiente che lo circonda, ma che non è onnipotente: è soggetto situato, finito e limitato.

La fenomenologia ci libera dalla ‘filosofia digestiva’ dell’idealismo non solamente perché lega, e indissolubilmente, l’io al mondo e il mondo all’io in una correlazione di con-crescita che non può essere spezzata se non annullando parimenti e il mondo e l’io, ma anche perché spoglia l’io di ogni enfasi spiritualistica e umanistico-retorica (nonostante certa oratoria affiorante in alcuni luoghi dell’ultimo Husserl), che, secondo la leggenda dell’io destinato a infallibilmente superare il non-io, lo vorrebbe sempre desto, sempre eminente sulle cose, sempre all’erta e mai vinto dalla stanchezza e dal sonno, mai sconfitto dagli eventi, mai impotente di fronte a ciò che accade e lo sovrasta[7].

La fenomenologia di Husserl, seguendo una via molto diversa da quella di Marx, porta il soggetto al di fuori della concezione idealistica e allo stesso tempo lo sottrae alle considerazioni oggettivistiche della psicologia, che analizza gli atti dell’uomo come dati di fatto.

Husserl e Marx aiutano Semerari nella costruzione della sua filosofia dal basso che si configura come un «marxismo aperto» alle contaminazioni, in continuo dialogo con le scienze positive e con le filosofie non marxiste e, d’altro canto, come una fenomenologia fortemente connotata da componenti materialistiche e da una critica della reificazione che non appartiene in modo precipuo alla filosofia husserliana.

Nella filosofia dal basso la ragione acquisisce un nuovo ruolo e una nuova identità. La ragione come critica e come utopia risponde alla crisi della ragione metafisica, la quale perdendo fiducia nella propria assolutezza e onnipotenza si autodistrugge, trasformandosi in delirio irrazionalistico, in misticismo. Per Semerari elaborare una nuova soggettività dotata di una nuova capacità razionale, più umana e più incarnata nella vita, significa rispondere al pericolo dell’irrazionalismo e alla barbarie di cui è portatore.

Con la crisi, la critica della ragione si trasforma da analitica e descrittiva del ‘soggetto trascendentale’ in progetto di costituzione possibile dell’uomo storico, reale a soggettività, ossia nel suo vero essere come attiva possibilità di dare senso razionale alla propria esistenza umana in generale, alla storia[8].

Solo attraverso la ragione è possibile costituirsi come soggettività, ossia come individualità libera, autonoma e responsabile. Solo elaborando un progetto e una condotta di vita razionali è possibile per l’uomo comprendere la natura e l’entità dei propri condizionamenti storici e sociali, diventando, solo in questo modo, capace di modificarli. Senza la ragione all’uomo non resta che essere vittima della sorte oscura che si erge terribile e tirannica contro l’impotenza umana.

Per evitare che l’uomo sprofondi nell’impotenza e nell’angoscia Semerari reputa fondamentale una riforma del discorso razionale che superi le crisi che hanno colto la ragione occidentale nel corso del suo sviluppo storico. In Civiltà dei mezzi e civiltà dei fini[9], l’autore individua due fasi della crisi della ragione: una prima fase narcisistica, in cui la ragione pensa di essere onnipotente, di poter fagocitare tutto quanto l’essere e poterlo dirigere e organizzare secondo i soli propri principi, e la fase masochistica, quella in cui la ragione, compresa la sua limitatezza e finitezza, abdica al suo ruolo di facoltà di spiegazione, interpretazione e progettazione del mondo per abbracciare un consolatorio delirio irrazionalistico, in cui si rifugia per compensare la propria insicurezza.

Una nuova filosofia razionale deve innanzitutto uscire da questa duplice crisi elaborando un nuovo concetto di ragione, in cui la differenza tra irrazionale e razionale assume significati diversi. L’irrazionale non è più il precategoriale, quell’insieme di atteggiamenti, relazioni, bisogni, pratiche che l’uomo assume nell’immediatezza della sua vita e che vanno necessariamente astratti o dimenticati per poter elaborare un discorso razionale. E la ragione, d’altro canto, non è più assoluta, né formale e calcolante, ma è quella capacità di progettare dei modi di vita a partire da situazioni date. Di pensare, a partire dalla critica della realtà, delle alternative ideali che si pongono come fini, come ideali regolativi, verso cui indirizzare una condotta adeguata. La ragione è la capacità di adeguare i mezzi ai fini, di discernere cosa va considerato come mezzo e cosa, invece, non è possibile considerare come tale.

La ragione, una volta uscita dalla crisi, comprende di non essere pura, ma di essere limitata dalla realtà nella quale si incarna, dall’alterità con la quale deve sempre confrontarsi, facendosi materialistica e intersoggettiva:

La realtà della cosa o del mondo non va cercata in un preteso essere a sé o in sé (fonte del realismo di ogni genere) né nella produzione solitaria di un soggetto cosmico (fonte dell’idealismo di ogni tipo), ma nella possibilità che in un certo punto si attuino la convergenza e la unificazione di più operazioni (conoscitive, estetiche, valutative, calcolatorie ecc) associate in comunità[10].

Abbandonata la pretesa di cogliere la verità nella sua assolutezza e superato il dolore per la scoperta dell’impossibilità di raggiungerla, la ragione diventa problematica, ossia storica, materiale, relazionale, capace di dare voce alle istanze del mondo della vita senza fagocitarlo. Diventa ideale regolativo, modello di condotta per gli uomini che si pongono dei fini ideali e attuano dei mezzi adeguati per conseguirli. «Quando non si auto-affermi dogmaticamente e non si auto-neghi arbitrariamente, la ragione coincide con l’autenticità esistenziale e vale come organizzazione coerente del mondo della vita»[11].

La ragione problematica, sospesa tra la «norma del giorno e la passione per la notte» non è un’acquisizione definitiva della comunità umana, bensì uno scopo da conseguire, una capacità da sviluppare, un mondo da realizzare.

La ragione che sorge da questa scienza nuova, che cerca di superare l’alternativa tra razionalismo metafisico, positivismo scientifico e irrazionalismo, è una ragione che si inserisce nell’orizzonte esistenziale: umana e problematica, è continua tensione tra ciò che si dà come oscuro e le forme della chiarificazione scientifica, tra l’in sé e il per sé. La ragione è lotta per la ragione, ossia lotta per la chiarificazione di ciò che chiaro non è, di ciò che si erge di fronte all’uomo fragile e impotente come forza sconosciuta ed estranea.

La lotta per la scienza, per l’instaurazione di un mondo libero e razionale, dovrebbe essere il faro che guida l’agire umano. La società contemporanea, tuttavia, egemonizzata dal discorso della razionalità calcolante e organizzata secondo il principio del profitto, è una società profondamente irrazionale, incapace di porsi dei fini. Tale incapacità è dovuta al fenomeno di astrazione e reificazione che fa della società una potenza estranea agli uomini, i quali non si sentono più padroni di amministrare la comunità che hanno creato.

Semerari distingue tra due civiltà: quella dei mezzi, la civiltà del modo capitalistico di produzione organizzata secondo i principi della razionalità calcolante che relega il mondo della vita in una dimensione di emarginazione, esclusione e insensatezza; quella dei fini, una civiltà in cui gli uomini sono padroni del mondo che hanno costituito e sono in grado di progettare, attraverso una ragione critica e umana, una società più equa e solidale. Il passaggio dalla prima alla seconda non è mai definitivo, ma sempre segnato dalla lotta.

Tuttavia, questa lotta sembra assumere spesso toni idealistici, per quanto Semerari cerchi di evitare di porre il suo discorso su un piano eccessivamente utopico o ideale. Semerari riconosce la negatività della ragione, il fatto che ci sia sempre un residuo, un non detto nel discorso razionale. Pur riconoscendo il limite, la situazionalità e la storicità della ragione, l’autore sembra accentuare in modo molto deciso la potenza della ragione, sembra affermare che la ragione sia sempre in grado di comprendere il mondo della vita e di dar voce ai suoi impulsi fondamentali. Questa fiducia, che suscita entusiasmo in chi legge queste pagine, sembra però sbilanciare l’equilibrio tra materialità e razionalità, che Semerari ha sempre cercato di mantenere, in favore della dimensione ideale, utopica e a discapito di quella storica e sociale concreta.

C’è qualcosa che, nel comunicare, si consuma, va perduto per sempre, non può essere più ricostituito. Questa negatività fa sì che il sistema della comunicazione/comprensione non riesca mai a saldarsi perfettamente, ma presenti qua e là delle lacerazioni il cui vuoto è appunto la solitudine. Poiché, però, non è possibile precostituire a priori il limite della comprensione, bisogna comunicare come se questo limite non esistesse. Risiede in questo come se il principio etico della comunicazione come dovere all’infinito dialogare [...][12].

Se la filosofia di Semerari ha come scopo quello di affermare la forza e la capacità della ragione di dialogare, di contro all’irrazionalismo, la filosofia di De Feo cercherà di indagare proprio quella solitudine che nasce dietro il come se, quella violenza che sta dietro ogni tentativo di dialogo.

2) Razionalizzazione e autonomia del negativo in Nicola Massimo De Feo

Nella riflessione di De Feo il rapporto tra razionalità e materialità si articola in una serrata e intensa critica dei processi di razionalizzazione che caratterizzano lo sviluppo tecnico ed economico della società contemporanea, che ha reso la società in cui viviamo una struttura astratta, organizzata secondo valori e criteri estranei ai bisogni dell’uomo concreto ma funzionali ad un sistema di produttività ed efficienza che olia gli ingranaggi della riproduttività del capitale.

La critica di De Feo si muove su diversi piani: quello teoretico in cui viene indagato il senso della razionalità occidentale e il suo rapporto con la storia, riferendosi sia alla filosofia di Marx che all’esistenzialismo, e quello di un’analisi più sociologica, maggiormente legata all’economia politica, in cui assume un ruolo fondamentale lo studio del Verein fur Sozialpolitik[13] e dell’ «altro movimento operaio»[14].

In una prima fase del suo pensiero, De Feo è ancora legato ad una concezione del rapporto tra razionalità e materialità in cui si avverte una certa influenza sia di Semerari che della Scuola di Francoforte. Nel saggio del 1967 intitolato Ragione e rivoluzione[15], un giovanissimo De Feo si interroga sul significato che queste due parole assumono nella contemporaneità, sostenendo che oggi la ragione va pensata come progetto di trasformazione concreta della società. Lo sviluppo e la piena realizzazione della ragione possono essere pensati come una rivoluzione:«La possibilità di possedere la nostra natura, per mezzo della ragione, è la possibilità di produrre in maniera libera e razionale le condizioni della nostra stessa esistenza»[16]. Il problema della ragione è dunque un problema di prassi, è la ricerca di una strada per condurre una vita libera e densa di significato, contro una società e una cultura dell’astrazione che hanno gettato l’uomo in una fatticità insensata e inconsistente, che lo hanno ridotto ad uno spettro di solitudine e alienazione, di tristezza e di abbandono. Contro un mondo fatto di cose in cui gli uomini sono scomparsi, annegati nel mare di merce che hanno prodotto.

Era nata la solitudine, quando le cose guardarono la propria vita, innanzi, nello spazio. Se stesse, nella forma.
Non fu una festa, quando le parole precipitarono nella noia, quando le cose si riguardarono, quando nacque la perfezione[17].

In questo saggio giovanile vengono gettate alcune delle basi del pensiero negativo di De Feo: la critica della razionalità formale, la distinzione netta tra la dialettica hegeliana e quella marxiana, considerando la prima come inserita all’interno di quello spirito liberale che si affermerà nel XX secolo come spirito di razionalizzazione economica e politica, mentre la seconda una «ontologia fondamentale dell’uomo»[18].

Con il passare degli anni la concezione limpida e luminosa della razionalità come sorgente di libertà, autonomia e possesso di sé comincia a diventare più oscura, più problematica. De Feo a poco a poco comincia a identificare la razionalità in quanto tale con la razionalità formale e il dispiegamento della ragione viene a coincidere con il processo di razionalizzazione della società capitalistica. Anche lo stile della scrittura subisce una profonda modificazione: la sintassi chiara e ordinata dei saggi giovanili si fa sempre più ellittica, costellata di proposizioni nominali, di periodi inaugurati con le relative, sempre più lunghi e ipotattici, spezzati da profondi incisi e caratterizzati dall’uso di doppie preposizioni (con e nel, contro e insieme, per e in ecc. ecc.). La lettura dei suoi testi si fa più difficile a mano a mano che De Feo scopre una realtà più densa, più drammatica, più profonda.
In un saggio di ben trent’anni successivo a quello del 1967, intitolato Razionalizzazione, appropriazione e sovversione in Weber, Sombart e Marx. Una introduzione[19], l’idea di una ragione in grado di guidare l’umanità verso una società e un’esistenza diverse è completamente abbandonata.

La ragione in quanto tale non figura più nelle analisi di De Feo, che si concentra soprattutto sull’analisi del concetto di razionalizzazione e sulla complessa interpretazione della teoria elaborata da Max Weber.

La razionalizzazione è un processo di ristrutturazione della produzione economica che risponde ad una crisi che va dal 1872 al 1900 e che vede una profonda trasformazione della società capitalistica: il rapporto tra capitale e stato si fa sempre più solidale e lo stato rivendica il potere di intervenire nell’organizzazione economica, una volta attestata l’ingenuità della teoria della mano invisibile; la scienza assume un ruolo «direttamente produttivo», ossia diventa protagonista della produzione di valore, capace di efficientare il metodo di produzione attraverso miglioramenti tecnici e organizzativi; ma, soprattutto, vede l’elaborazione di un progetto politico di coinvolgimento delle masse operaie specializzate nel movimento riformistico che dall’alto viene portato avanti per superare la crisi ed ovviare alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Mentre la manodopera specializzata diventa un’élite che collabora con il ceto dirigente per riformare l’economia, la razionalizzazione produce, attraverso la meccanizzazione e la frammentazione del processo produttivo, un esercito di manodopera dequalificata, emarginata a livello sociale ed esclusa dalle decisioni politiche.

Il conflitto permanente tra il gelernt Arbeiter e l’an/ungelernt Arbeiter è, per De Feo, il conflitto decisivo della società contemporanea. Il sistema produttivo, così come si è sviluppato nel corso del Novecento, ha prodotto questa fondamentale contraddizione tra i lavoratori specializzati e sindacalizzati che si sono pienamente integrati nel processo di riforma dell’economia e l’esercito di lavoratori dequalificati, disoccupati, immigrati, emarginati di ogni genere che non sono organizzati in partiti o sindacati, che non sono rappresentati nei parlamenti delle potenze occidentali, privi di cittadinanza, spettri della globalizzazione.

Duplice movimento della sussunzione-razionalizzazione-spersonalizzazione-spiritualizzazione, e di scissione, irrazionalizzazione, dissoluzione, nella produzione, nello scambio, nella società e nel movimento operaio, di espansione e di contrazione, di apertura e di chiusura, di affermazione e di negazione, i momenti contrapposti e identici di sviluppo e crisi, espansione e depressione, di emergenza e di adattamento[20].

De Feo riconosce nel pensiero negativo, in Nietzsche, Heidegger, Weber, l’intuizione della profonda dissoluzione, dell’annichilimento e immiserimento dell’esistenza che la razionalizzazione capitalistica causa nel momento in cui si dispiega. Come se la ragione formale fosse un’enorme e potente macchina che mentre ara un terreno per renderlo più fertile e produttivo crea il deserto attorno a sé. Questi pensatori hanno intuito la presenza del deserto infuocato che circonda la società occidentale, di un inferno che si estende oltre l’apparenza paradisiaca di un mondo razionalmente condotto verso un ideale di perfetta efficienza produttiva.

Nel saggio si crea una sorta di corrispondenza tra la dimensione ontologica, teoretica del negativo e la dimensione sociologica degli operai dequalificati, degli emarginati dal processo di riforma dello stato e dell’economia cominciato in Germania agli inizi del Novecento e sviluppatosi durante il secolo scorso in tutto il mondo occidentale. Il sodalizio tra capitale, stato e lavoratori specializzati si traduce nel linguaggio scientifico e filosofico della razionalità formale che relega i bisogni concreti, vitali dell’uomo ma improduttivi nel regno dell’irrazionalità e dell’impossibilità, che spinge con violenza le più profonde aspirazioni umane alla dignità e alla libertà nella zona buia del non essere, nel gelo dell’inesistenza, nell’oblio più cupo della memoria.

La scoperta del negativo, per De Feo, costituisce la scoperta di questa esistenza negata, cui innanzitutto e più di tutti Marx, ma anche gli autori sopra citati e non solo – dovremmo aggiungere gli anarchici come Nečaev, Most, Reinsdorf e scrittori come Dostoevskij – hanno cercato di dare voce e consistenza. Nell’altro movimento operaio, De Feo vede l’origine e la sostanza materiale del pensiero negativo.

Il concetto di «autonomia del negativo» fa luce su questa dimensione, insieme sociologica e ontologica, politica e filosofica.

La rottura dell’unità e dell’armonia, il rifiuto dell’ordine naturale e sociale, la ribellione e il disprezzo del bene e del male, la ricerca della libertà assoluta e del tutto è permesso, della felicità e del piacere sconfinate – è la voce del sottosuolo che rompe i margini del dominio della normalità legale, l’orgia dionisiaca che distrugge regole del gioco e leggi di movimento dello stato esistente, l’ ‘apollineo’, l’autonomia del negativo che per liberarsi deve distruggere la sua stessa negatività, la condizione della emergenza violenta nella forma imposta della criminalità, della follia e della morte[21].

L’Autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale del 1992 è forse l’opera che esprime in modo più esaustivo, interessante, complesso il rapporto tra autonomia del negativo e interpretazione storica e filosofica della rivoluzione sociale.

Un testo che ha orientato il pensiero filosofico e politico di De Feo in modo decisivo è l’Altro movimento operaio[22] di Karl Heinz Roth che ripercorre la storia dei movimenti operai dequalificati in Germania, la cui compagine era costituita perlopiù da immigrati italiani, turchi ed europei orientali. Quella descritta da Roth è quasi una non-storia, un apparente ed insensato alternarsi di cieche ribellioni e brutali repressioni che non portano ad alcuna reale conquista da parte dei lavoratori. Questa non-storia è l’altro lato della narrazione che la società occidentale ha fatto di se stessa come cammino inarrestabile di progressiva affermazione della libertà, dell’uguaglianza, della dignità del lavoro, come percorso senza ostacoli di realizzazione di diritti. La condizione di vita di soggetti come gli immigrati ci dice della parzialità, se non della completa falsità, di questo racconto.

De Feo cerca di elaborare una filosofia della non-storia di questi movimenti, reputando il concetto di autonomia del negativo quello più adatto per esprimere il conflitto tragico che caratterizza la società globale contemporanea.

L’autonomia del negativo è infatti un concetto che racchiude in sé la dimensione di tragicità e l’impulso ‘demoniaco’ che si esprimono in azioni violente, isolate, disorganiche di distruzione dello stato di cose. L’autonomia del negativo si esprime sostanzialmente come anarchismo: la prima parte del libro è dedicata a raccontare la storia degli anarchici Nečaev, Reinsdorf e Most, delle loro azioni e delle loro personalità. In generale, la spinta dell’azione anarchica non è data dal desiderio di realizzare un progetto politico articolato e diretto a cambiare la società, a superarne le ingiustizie e le mostruosità, quanto piuttosto è spinta da una pulsione distruttiva e demoniaca, che tende a far emergere quella mostruosità e ad abbattere lo stato di cose esistente come se non ci fosse un futuro, come se l’unica alternativa alle ingiustizie fosse quel movimento di distruzione, come se l’azione sovversiva fosse il fine stesso dell’agire politico.

[...] La disperazione agisce come razionalità dello scopo, possibilità di usare la presente condizione come leva maieutica per rovesciare lo stato presente, perché l’unica reale alternativa all’esistente è rinunciare alle alternative e assumere su di sé la forma data dell’esistente, non per riprodurlo, ma per distruggerlo [...][23].

L’azione immediata finalizzata alla distruzione e mossa dalla disperazione è l’unica azione possibile per questi soggetti emarginati non solo da ogni discorso politico, da ogni progetto di riforma della società, ma anche da ogni progetto rivoluzionario. L’unica rivoluzione possibile è questo moto di disperazione e di destabilizzazione, perché ogni stabilizzazione è esclusione e riduzione al silenzio.

Alla contraddizione dialettica si sostituisce il contrasto immediato tra razionalizzazione e bisogni dell’uomo, che possono esprimersi solo come follia, illegalità, illegittimità. La società è segnata in modo irrimediabile dal contrasto tragico tra la forza astratta e gelida della razionalità formale del capitale e quella oscura, viscerale, densa di materialità, carica di vita dei bisogni umani, forza creativa e distruttiva.

Nella nietzscheana trasvalutazione di tutti i valori, nel demoniaco di Dostoevskij, nell’angoscia kierkegaardiana, nella malattia freudiana, nella differenza ontologica heideggeriana, De Feo coglie quella dimensione sociale che si esprime come negatività, movimento e pulsione distruttrice. Il negativo si svincola dal movimento dialettico e assume piena autonomia: diventa una dimensione che non può rovesciarsi in un risultato positivo, ma che si fa da sé positiva, affermandosi come negatività, come negazione. È uno spazio ontologico e sociale che non può essere conciliato con il resto della società e dell’essere, dai quali è separato da una frattura insanabile che la ragione formale ha creato e che non può più essere ricucita. Il negativo è autonomo perché le leggi del suo essere e del suo agire non sono legittimate da principi universali e trascendenti quali la giustizia o l’uguaglianza ma si legittimano da sé, nella loro immanenza e immediatezza.

Questo movimento è la rivoluzione del ‘profondo’. Che muove dalla rivoluzione politica e psicanalitica, progressivo-regressiva come la definisce Sartre, del soggetto individuale, per rovesciare e liberarne le forze e potenzialità intersoggettive, sociali e storico-naturali. Che libera l’individuo dalla individualità del suo io separato, l’oggetto e il soggetto dalla propria astratta e unilaterale soggettività e oggettività dentro e come movimento di affermazione e di negazione. E diventa altro da sé essendo se stesso e rifiutando se stesso. La disperazione, come essere e volontà di essere altro e diverso, liberazione della diversità e della differenza con e attraverso la distruzione dell’unità e dell’identità. Il profondo diventa superficie, l’essenza si sviluppa in apparenza, l’identità in differenza e diversità. E questo è possibile solo se e in quanto il movimento della sovversione trascina il processo dell’azione, individuale e sociale come disperazione – smantellamento dello stato esistente sotto i colpi di martello della sfiducia, del rifiuto, della ribellione, del sabotaggio, dell’attacco, della crisi – riappropriazione e liberazione della vita e delle sue possibilità. L’affermazione per mezzo della negazione. La distruzione dell’identità-unità dello stato presente attraverso la rivoluzione del profondo, il rovesciamento dell’unità-identità della persona, della famiglia e dello stato che la sorregge e ne è prodotta, per aprire la strada a nuove possibilità, di bisogni e di desiderio di essere e apparire[24].

L’ultima appendice del testo, Bandiere nere su Kreuzberg, pubblicato per la prima volta nel 1982 in “Controinformazione”, ci dà un’idea concreta della dimensione storica e sociale di cui De Feo vuole dare una formulazione filosofica. Kreuzberg è un quartiere alla periferia di Berlino abitato soprattutto da immigrati e lavoratori dequalificati, è una realtà come ce ne sono tante ai margini delle grandi città europee. Lo sgombero di quartieri e ghetti occupati da poveri ed immigrati che costituiscono un serbatoio di manodopera dequalificata e a basso costo è un aspetto fondamentale della gestione dell’ordine pubblico nelle grandi città – e non solo – e viene condotta dallo stato come se fosse una campagna militare, con efficienza e abilità strategica.

La risposta più efficace che questi ceti sociali possono dare al problema gravissimo dell’emergenza abitativa è il passaggio «Dal ghetto all’autonomia»[25], che rovescia la violenza del ghetto in ribellione contro lo stato, il degrado in una nuova forma di vita indipendente e capace di organizzarsi in modo autonomo, facendo della separazione subìta una possibilità di affermare la propria diversità.

L’autonomia del negativo è un concetto che si affaccia su una realtà profondamente e radicalmente diversa da quella nella quale noi uomini occidentali mediamente benestanti ed istruiti siamo abituati a vivere. Il degrado e l’emarginazione non possiamo viverli se non in modo filtrato dall’informazione, dalle nostre buone intenzioni, dai nostri progetti politici. De Feo si immerge in questa dimensione alla ricerca di una comprensione immediata e diretta di questi fenomeni sociali.

Tuttavia, la sua ricerca suscita alcune perplessità. Innanzitutto, l’identificazione del pensiero negativo di Nietzsche, Heidegger e degli altri autori con il sommovimento destabilizzante della ‘moltitudine’ globale, per dirla con Negri. Il pensiero negativo esprime certamente una crisi sociale, politica e filosofica che segna la storia europea, ma è una crisi che riguarda l’uomo occidentale, l’homme-bourgeois sorto con la cultura illuminista e che ha perso il senso del suo agire, che non sente più il terreno sotto i piedi, che scivola nello spazio liscio del valore di scambio verso un baratro che lo spaventa e lo angoscia. Ma la sua angoscia, espressa dal pensiero negativo, non è l’angoscia dell’emarginato, quanto piuttosto l’angoscia del privilegiato, di colui che gode dei benefici della razionalizzazione ma allo stesso tempo sente di aver perso qualcosa, di aver smarrito il senso profondo del mondo da lui creato. Cercare di guardare agli emarginati e agli esclusi attraverso concetti che non nascono per esprimere la condizione di questi soggetti non è forse una mediazione? Un tentativo di sussumere la diversità irriducibile di chi vive una condizione di svantaggio ed esclusione sociali alle categorie della cultura occidentale e borghese, per quanto questa si mostri in crisi e ripiegata nella negatività?

Un altro punto problematico della riflessione di De Feo riguarda l’effettualità politica delle azioni che il filosofo riconosce come unica possibilità di affermazione della dimensione negativa dell’esistenza. Queste azioni hanno una forte componente di gratuità e casualità, sono dettate dal bisogno immediato e per questo autenticamente libere. Che un’azione dettata dalla disperazione della condizione in cui si è gettati sia una strada per la propria liberazione è un’affermazione molto problematica e suscettibile di critiche. Inoltre, queste azioni di ribellione sono seguite sempre da una durissima e violenta repressione, la loro bellezza e potenza è data proprio dalla loro ineffettualità, dal fatto di non diventare istituzione politica. Ciò significa, forse, che gli emarginati sono destinati a rimanere tali e che le loro azioni non possono che essere estemporanee e prive di conseguenze, se non quella di affermare modi di vita fragili e destinati ad essere soffocati?

3) Una sintesi possibile

Il dialogo con Semerari e De Feo non poteva che concludersi con degli interrogativi. L’ultimo che qui si potrebbe porre è se sia possibile una sintesi, non tanto tra il pensiero di De Feo e quello di Semerari, che apprezziamo nella loro diversità e nelle loro contrapposizioni, ma tra le dimensioni su cui questi due autori riflettono.

È possibile la sintesi tra un discorso razionale, dialogante, progettante e le lotte immediate, quelle che pongono la vita nuda e inerme sul terreno della storia e del conflitto politico? Fino a che punto la ragione può includere la materialità nel suo discorso senza violarla? E la materialità non ha sempre in sé qualcosa di irrazionale, di renitente al dialogo e alla ragionevolezza?

Le idee di De Feo e Semerari a volte sembrano essere caratterizzate da una certa unilateralità: nonostante i suoi sforzi, a volte Semerari accentua l’aspetto ‘idealistico’ del suo discorso, tralasciando delle questioni sociali e materiali su cui ci aspetteremmo una maggiore attenzione. E d’altro canto, l’anarchismo esplosivo di De Feo, nella sua tragicità, rischia di diventare un discorso esistenzialistico e ontologico anziché porsi come analisi storica lucida e critica del presente. Allo stesso tempo, però, le dimensioni che i due filosofi proiettano davanti a noi sembrano legate tra di loro da una sorta di dialettica.

L’idea di rivoluzione di De Feo, da un lato, sembra essere destinata necessariamente alla sconfitta. Riportare il tragico nella riflessione politica comporta un enorme rischio: quello di condannare coloro che sono socialmente emarginati ad un’emarginazione ontologica, costitutiva del loro essere e della loro identità. Significa creare una sorta di mondo parallelo fatto di esclusione cui non è mai possibile accedere. Che un discorso politico e filosofico razionalmente condotto abbia sempre delle difficoltà ad entrare in contatto con il mondo degli esclusi, di coloro che lavorano nell’ombra, in una situazione di degrado e di schiavitù è una questione che una filosofia materialistica e marxista non può non porsi. Ma relegare questo mondo in una dimensione di irrazionalità, spontaneità che è senza un da dove e senza un verso dove, mentre in altre sedi, lontane, si decide del destino della società e dell’umanità europea, non significa comunque emarginare questi soggetti? Questi uomini che non potranno mai diventare soggetti?

D’altro canto, la fiducia che Semerari nutre in una nuova scienza che nasce dalla riforma della ragione ci sembra altrettanto problematica. La scienza, per quanto sia scienza della nuova umanità, scienza etica e politica che si rivolge a tutti gli uomini, è pur sempre un linguaggio specifico, particolare, tecnico che non tutti possono comprendere e in cui non tutti possono riconoscersi. Una nuova scienza resta inascoltata se non si formano movimenti e laboratori sociali disposti a ‘tradurre’, a mediare questo linguaggio per comunicarlo ai destinatari. Di per sé la nuova scienza non è che un mondo lontano, e la sua bellezza, la sua grandezza non possono renderlo più vicino e concreto. Senza le lotte concrete degli uomini, senza quel mondo che De Feo declina al negativo, la scienza resta essa stessa un negativo, uno spettro esanimato dalle migliori intenzioni.

Una possibile dialettica tra la dimensione tragica dell’esistenza abbandonata a se stessa e il mondo della ragione è forse, almeno per chi scrive, il più prezioso lascito di questi autori. Due pensieri aperti, insieme locali e universali, in cui si riflettono le più antiche sofferenze del meridione e le più grandi aspirazioni del pensiero europeo, che ci danno la possibilità non tanto di continuare, di proseguire lungo il loro percorso, ma di ricominciare, di ripensare i concetti da loro elaborati, rivivendoli alla luce della nostra crisi, comune alla loro eppure diversa.


[1] G. Semerari, Filosofia e potere, Dedalo, Bari 1973.

[2] Ivi, p. 14.

[3] Ivi, p. 20.

[4] K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, tr. it. Bompiani, Milano 2011.

[5] G. Semerari, op. cit., p. 111.

[6] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. Saggiatore, Milano 1972.

[7] G. Semerari, op. cit., p. 130.

[8] F. De Natale, G. Semerari, Skepsis. Studi husserliani, Dedalo, Bari 1989, p. 134.

[9] G. Semerari, Civiltà dei mezzi e civiltà dei fini, Bertani, Verona 1979.

[10] Ivi, p. 63.

[11] Ivi, p. 108.

[12] Ivi, p. 250.

[13] N. M. de Feo, Riformismo, Razionalizzazione, Autonomia operaia. Il VereinfürSozialpolitik 1872-1933, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1992.

[14] K. H. Roth, L’altro movimento operaio, tr. it. Feltrinelli, Milano 1976.

[15] N. M. de Feo, Ragione e Rivoluzione, in Id., Ragione e rivolta. Saggi e interventi 1962-2002, a cura di O. Marzocca, Mimesis, Milano 2005, pp. 115-130.

[16] Ivi, p. 117.

[17] N. M. de Feo, L’assenza. Analitica esistenziale, in Aa. Vv., La solitudine non è una festa. Il pensiero militante di Nicola Massimo de Feo, a cura di O. Marzocca, Mimesis, Milano 2006, p. 151.

[18] Id., Ragione e rivoluzione, cit., p. 117.

[19] Id., Razionalizzazione, appropriazione e sovversione in Weber, Sombart e Marx. Una introduzione, in Id., Ragione e rivolta…, cit., pp. 313-331.

[20] Ivi, p. 329.

[21] N. M. de Feo, L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1992, p. 240.

[22] K. H. Roth, op. cit.

[23] N. M. de Feo, op. cit., p. 44.

[24] Ivi, pp. 245-246.

[25] Ivi, p. 376.

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