Andrea Russo, 14/03/2020
Materiale datato: 01/11/2009
Pubblicato nel 2009 ne L'uniforme e l'anima. Indagini sul vecchio e nuovo fascismo, il testo di A. Russo provava a interrogarsi sull'attualità della figura di Weimar. Al centro c'è la questione spinosa della crisi, il cui statuto è mutato da «fase» (della teoria ciclica del marxismo classico) a «norma». Pur scritto in una determinata congiuntura, un anno dopo lo scoppio della Crisi del 2008, questo saggio di Russo può essere utile per comprendere un possibile innesto dell'elaborazione teorica di de Feo con le teorie post-foucaultiane contemporanee, e in questo caso, in particolare con quella agambeniana.
Questo è il primo testo della sezione Su de Feo, uno dei cui obiettivi sarà proprio quello di sondare i possibili innesti con le teorie e le analisi attuali, nella loro diversità e molteplicità di orientamenti e letture.
La crisi economica non può nascondere la catastrofe sociale e politica. Oggi come ai tempi della Grande Depressione, dopo il crollo di Wall Street nel 1929. La storia della Germania nei primi decenni del XX secolo è paradigmatica per una serie di ragioni: in primo luogo per l’utilizzo socialdemocratico della critica marxiana dell’economia politica, che innestandosi sul liberalismo diventa una risorsa indispensabile per la riorganizzazione del capitalismo su nuove basi sociali; poi per l’invenzione di un primo sistema di previdenza sociale, pensato ed erogato dall’alto da Otto von Bismarck; infine per la storia del movimento operaio tedesco, che offre un catalogo di modelli possibili dell’antagonismo e di regolazione dei conflitti.
A partire dall’epoca bismarckiano-guglielmina, la storia sembra confermare che le crisi del capitale vadano risolte dai socialisti. Ciò dipende probabilmente dal fatto che il partito socialdemocratico tedesco, nella sua evoluzione storica, ha sempre considerato la pianificazione razionale, la gestione politica e la socializzazione dell’economia come strumenti decisivi per la realizzazione del socialismo e del comunismo. Proponendo queste strategie come espressione di una razionalità socio-economica superiore a quella del capitalismo concorrenziale, la socialdemocrazia ha di fatto offerto su un piatto d’argento al ceto politico borghese gli strumenti più idonei per la gestione delle crisi economiche del capitalismo.
Lungo i cicli di sviluppo-crisi-ristrutturazione che si succedono tra gli anni 90 del XIX secolo e gli anni 20-30 del XX, l’inserimento del movimento operaio riformista nell’ordine statuale borghese ha rappresentato lo strumento autocorrettivo sistemico più efficiente per livellare diseguaglianze, sproporzioni e ingiustizie del capitalismo. Quando Antonio Gramsci afferma che Das Kapital è diventato il libro dei borghesi, intende evidenziare che il soggetto politico tradizionale dell’ideologia socialdemocratica del lavoro, così come gli obiettivi politici e sindacali delle lotte operaie, non esprimono più nessuna forma di alterità rispetto allo status quo. Essi fanno pienamente parte, insomma, dei programmi di riforma interni ai meccanismi di accumulazione e di riproduzione del capitale. La ricerca socialdemocratica di una giusta misura dello sfruttamento, a partire da cui praticare una gestione del capitale corretta ed egualitaria – oggi si direbbe “equa e sostenibile” – si candida così ad essere l’ultima frontiera del processo di modernizzazione. In fondo, come ci hanno insegnato gli operaisti italiani degli anni 60, non c’è socialdemocratico che non nasconda nell’armadio lo scheletro del capitale.
Il marxismo di Bernstein, di Kautsky, di Hilferding e di Bauer ha posto le premesse teoriche e pratiche per la teoria borghese dello sviluppo. Il capitalismo, infatti, grazie a quest’impulso modernizzatore diventa un sistema economico e politico dinamico, che sviluppa le forze produttive e le relazione sociali, la cultura, la scienza produttiva, la qualificazione e la professionalità, crea benessere, accresce i consumi, la coscienza sociale, la partecipazione e la democrazia [...]. In questo movimento le crisi non indeboliscono a lungo lo sviluppo, né possono portare al crollo del sistema, ma, in definitiva, diventano salutari perché rendono possibili le ristrutturazioni e le conversioni, grazie alla dinamica autocorrettiva del sistema, di cui la Sozialpolitik, e in particolare il sistema bismarkiano delle assicurazioni sociali, sono il modello classico più importante per tutto il capitalismo contemporaneo sino al piano Beveridge di sicurezza sociale[1].
Il carattere dinamico e autocorrettivo del capitalismo non deriva da meccanismi “naturali” (giusnaturalistici e/o di mercato), come la mitica “mano invisibile” degli economisti classici, bensì dalla funzione razionalizzatrice del marxismo depurata dei suoi contenuti rivoluzionari.
Sotto molteplici aspetti [...] la socialdemocrazia e i suoi sindacati hanno costituito un punto di mediazione fondamentale tra lavoro e capitale, tra società e Stato. I meccanismi di contrattazione collettiva hanno rappresentato una posizione privilegiata nella formazione e nella riproduzione del contratto sociale. I sindacati istituzionali e i partiti affiliati hanno invece interpretato il duplice proposito di aprire una strada maestra all’influenza degli interessi operai sulla macchina statale (fornendo così elementi di legittimazione al comando statale), e di estendere al tempo stesso la disciplina e il controllo dello Stato e del capitale sulla forza lavoro[2].
La Sozialpolitik, basata sulla convergenza di interessi tra grande capitale e classe operaia qualificata, può essere considerata il blasone del riformismo borghese. Evidentemente, è sulla base della capacità storicamente dimostrata dal movimento operaio ufficiale di delineare la strategia delle principali controtendenze capitalistiche alla crisi, che il 9 novembre 1918 (quando il Kaiser Guglielmo II abdica e fugge, mentre le masse operaie in rivolta occupano il centro di Berlino) il cancelliere Max Von Baden rimetterà i propri poteri al leader del partito socialdemocratico Friedrich Ebert.
C’è anche un altro motivo per cui i socialdemocratici sono i più adatti ad avviare la macchina costituzionale della Repubblica di Weimar: la divergenza storica che, a partire dal ciclo di lotte proletarie culminate nella Comune di Parigi, si è prodotta tra due movimenti operai. Il primo ufficiale, egemonizzato dalla figura dell’operaio specializzato e organizzato nei partiti socialisti della Seconda Internazionale, di cui l’Spd è l’avanguardia. Il secondo, l“altro movimento operaio”, più magmatico, composto da una forza lavoro massificata, supersfruttata, quasi sempre marginalizzata dal sistema dei partiti e che si esprime con forme di lotta radicali e selvagge, ponendo in crisi lo Stato-piano frutto del patto politico-sociale stipulato tra il grande capitale e la socialdemocrazia. Per tutta l’epoca bismarkiano-guglielmina, tra i movimenti anarco-comunisti e la socialdemocrazia si è combattuta una lunga guerra a bassa intensità. I liberali e i cattolici sapevano che i socialdemocratici, dopo tanti anni di opposizione, non si sarebbero lasciati sfuggire l’occasione di governare e che, pertanto, non avrebbero esitato a usare la violenza contro gli Spartachisti, favorevoli all’instaurazione di una repubblica di tipo sovietico. Per reprimere i comunisti, infatti, i socialdemocratici stringeranno alleanza con i Freikorps (formazioni paramilitari di estrema destra). Nel romanzo I proscritti (1943), Ernst von Salomon, che ne fece parte, ha dipinto l’esperienza storica di questi “moderni lanzichenecchi”, la cui ferocia ha segnato l’origine della Repubblica di Weimar.
Gli anni 1924-1928 sono stati definiti gli “anni d’oro” di Weimar. La Repubblica, come è noto, fu governata da coalizioni di centro-sinistra nelle quali il ruolo dei socialdemocratici fu essenziale per gestire il processo di riconversione dell’economia di guerra in economia di mercato. È questo il periodo della cosiddetta “razionalizzazione”: il momento in cui i nuovi metodi tayloristi e fordisti hanno avviato un processo di modernizzazione del capitale.
La crescita [...] della meccanizzazione ed automazione degli impianti – dal 1924 finanziati dal credito USA (piano Dawes) –, scatena un attacco formidabile contro il lavoro qualificato, che porta a rovesciare la tradizionale gerarchia di fabbrica, sostituendo gli strati tradizionali dominanti degli operai “qualificati” [...] con i nuovi operai “de- e non qualificati” [...], che porta all’espulsione dalla fabbrica delle avanguardie comuniste della tradizione rivoluzionaria consiliare, luxemburghiana e leninista. [...] Nonostante lo sviluppo di un diffuso sistema di “protezionismo statale”, ispirato alle concezioni moderne dello “Stato sociale”, di lunga tradizione nel regime guglielmino, lo Stato di Weimar, pur con la gestione socialdemocratica di una avanzata politica di riformismo sociale, non riesce [...] a superare e a controllare i controeffetti della razionalizzazione[3].
Nel 1929-1930 la frattura tra razionalizzazione della fabbrica e pianificazione dello Stato sociale si acuisce con la crisi. Da un lato la crescita dei costi della ristrutturazione e del rinnovamento degli impianti, dall’altro le rigidità amministrative e burocratiche sul sistema del credito, delle assicurazioni sociali, delle imposte ecc., bloccano il sistema produttivo. La “disoccupazione da razionalizzazione” si abbatte come una mannaia sulla popolazione. Negli anni della Grande Crisi, la disoccupazione dilagante ha prodotto una spaccatura profonda nella composizione di classe con conseguenze rilevanti sul piano della mentalità e dei comportamenti politici.
La prima spaccatura, ovviamente, fu quella tra occupati e disoccupati e quindi tra una parte significativa della base socialdemocratica e la base comunista; la seconda spaccatura si ebbe tra disoccupati con sussidio, disoccupati con assistenza individuale e disoccupati senza alcun sostegno [...]. Va ricordato che nel 1931, quando la crisi è scoppiata da due anni, il Partito comunista tedesco (Kpd) è un partito composto per l’80% da disoccupati. [...] Per un partito fortemente ancorato a impostazioni “operaiste”, secondo cui la lotta contro il capitale si vince sul luogo di lavoro, all’interno dei rapporti di produzione, questa situazione creava un forte disagio e costringeva il partito a muoversi su terreni generali, su campagne di massa tanto rumorose quanto astratte, con la conseguenza di caricare eccessivamente il lato propagandistico, culturale, ideologico e in definitiva elettoralista della sua azione[4].
Mentre la via obbligata del partito comunista era la distruzione dello Stato weimariano e l’instaurazione della repubblica dei soviet, la tendenza del partito socialdemocratico era quella di concentrare la propria azione sull’amministrazione sanitaria e assistenziale, ossia su quel minimo di potere reale che consentiva di difendere l’occupazione dei suoi iscritti, dal momento che l’attività sindacale nell’industria era stata neutralizzata dalla Grande Crisi.
Quando si pronuncia la frase “i due partiti del movimento operaio, Spd e Kpd” si accetta in realtà una mistificazione, si commette un falso storico. È così difficile liberarsene! Spd e Kpd erano su posizioni così distanti, la mentalità dei loro militanti erano così differenti, che non si può fare finta che appartenessero ad uno stesso movimento, il “movimento operaio”[5].
Per il partito comunista, la vera controparte istituzionale era dunque l’amministrazione del Ministero del Lavoro, che gestiva i sussidi di disoccupazione: un apparato complesso e ramificato, una delle colonne portanti dello Stato weimariano. Il partito comunista doveva dimostrare la sua abilità nell’organizzare i conflitti sui luoghi dell’assistenza. La vita quotidiana nella Repubblica di Weimar, soprattutto nelle grandi città, era caratterizzata da continui assalti e scontri con la polizia intorno a questi luoghi. Per capire la crisi di Weimar e l’avvento del nazismo, è importante focalizzare l’attenzione sui meccanismi di controllo, selezione e disciplinamento di cui disponeva l’apparato assistenziale.
L’aumento vertiginoso della disoccupazione conferì a questo apparato poteri larghissimi nella fase finale della Repubblica, potremmo dire che lo Stato, agli occhi del cittadino, non aveva altro volto identificabile che quello dell’apparato assistenziale. I poteri discrezionali di questo apparato aumentarono man mano, la sua funzione di “sportello di sussistenza” fu gradualmente sostituita dalla funzione di “rilevamento d’informazioni sulla persona”. Gli ultimi governi di Weimar [...], ben consapevoli del potere di controllo dell’apparato assistenziale, usarono la leva del sistema dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione [...] per creare il massimo di segmentazione, di atomizzazione, all’interno della massa disoccupata[6].
Ma in che modo fu attuata questa politica? Tramite una serie di decreti d’urgenza nei quali erano modificate volta per volta le condizioni di accesso ai sussidi. Questi decreti, che neutralizzavano il potere legislativo del Parlamento, alimentavano la condizione d’insicurezza, e funzionavano in sostanza come dispositivi di esclusione di alcuni gruppi sociali dal diritto all’assistenza.
L’argomento per giustificare i tagli e le esclusioni [...] era sempre lo stesso: la necessità di ridurre il deficit della finanza pubblica. Così milioni di disoccupati si sentivano costantemente minacciati anche in quello che era stato un loro diritto acquisito con anni di contributi; la gente già ridotta alla disperazione per i prolungati periodi di disoccupazione, aveva l’impressione che il governo giocasse alla roulette con le sue disgrazie[7].
Il sistema di assistenza era basato su tre forme di intervento: 1) il sussidio previsto dalla legge sull’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione del 1927, di cui potevano beneficiare solo coloro che erano stati stabilmente occupati per un certo numero di anni; 2) il sussidio previsto per le situazioni eccezionali di crisi industriale (simile alla nostra cassa integrazione straordinaria); 3) il sussidio previsto dalla legge del 1924 che prevedeva interventi mirati sulla povertà. Tuttavia, mentre i primi due sussidi facevano parte del sistema di previdenza statale, il terzo, erogato dai singoli Comuni, non si presentava come un diritto maturato in base ai meccanismi previdenziali e assicurativi, bensì come una forma di solidarietà concessa sulla base di criteri discrezionali ad personam, e per di più con l’obbligo del rimborso.
Ora, il punto importante è questo: con la Grande Crisi si verificano a livello di massa periodi di disoccupazione sempre più prolungati e – dato che il sistema era concepito come un sistema a tre livelli – un numero sempre maggiore di persone che avevano diritto al sussidio di disoccupazione, in seguito al prolungato periodo di disoccupazione o veniva a perdere i diritti maturati in quanto non più contribuente oppure veniva a estinguersi il periodo di godimento previsto dai sussidi dei primi due livelli[8].
Queste dinamiche riducono in povertà persone di diversi ceti sociali. Davanti agli uffici dell’assistenza, una volta alla settimana o una volta al mese, una massa eterogenea di impiegati, commercianti, artigiani, anziani, invalidi, marinai senza imbarco, operai di fabbrica disoccupati, ex prostitute, donne sole con figli, debbono convincere i funzionari di turno della legittimità delle loro richieste. Ed è solo presentandosi come “vittime” che possono aspirare a ottenere qualcosa. Oggi, in piena epoca neo-liberale, questa archi-scena di crisi del Welfare è diventata la norma. Dappertutto risuona sempre e solo il medesimo ritornello: “Sei un precario che non ce la fa ad arrivare a fine mese? Non c’è problema...”.
Usa la tua autonomia per soggettivarti come vittima e forse avrai una chance di sopravvivere. [...] Con la crisi del Welfare State e delle forme di rappresentanza politica e sindacale, c’è ormai la corsa a essere riconosciuti come vittime o come “handicappati” a vario titolo (vittime di un handicap, di una sofferenza, di un disagio). [...] Tramontato il mondo delle garanzie a carattere universalistico, si profila un nuovo stato di natura nel quale ciascuno è chiamato a contrattare privatamente l’assistenza sanitaria, l’educazione, la pensione ecc. [...] I diritti sono diventati carta straccia e, paradossalmente, è l’handicap che consente di essere super in un mondo politicamente depotenziato, degradato, squalificato. Un’asta che premia il peggior offerente: Vuoi ottenere un sussidio, un permesso di soggiorno, un lavoro che altrimenti non otterresti, perché non è garantito più a nessuno? Fatti riconoscere attraverso uno status di segno negativo. Eccelli per difetto. Presentati in società con le stimmate – qualsiasi forma di “minorazione” fisica, psichica o sociale – e ti sarà riconosciuto un po’ di potere[9].
Negli anni 20-30, a fronte di questa situazione, il partito comunista tedesco cerca di mobilitare i disoccupati affinché essi non si presentino davanti ai burocrati con un atteggiamento remissivo, ma con la postura di chi rivendica un diritto. Grazie alla propaganda comunista, il comportamento degli assistiti diventa sempre più aggressivo e insubordinato. Con il radicalizzarsi dello scontro tra la struttura e l’assistito, il sistema previdenziale perde il suo carattere di servizio sociale, e si converte in un sistema poliziesco di controllo e schedatura sul quale farà presa la macchina nazionalsocialista. Infatti, quando i nazisti saliranno al potere, il vecchio personale della burocrazia assistenziale verrà integrato senza traumi: gli impiegati svolgeranno il loro lavoro come prima, continuando a esercitare una funzione di sorveglianza, controllo e schedatura. Parallelamente, però, il regime nazista comincia a selezionare i disoccupati anche su una base biologica e razziale. In questo quadro, il personale amministrativo e gli operatori socio-sanitari collaborano con la polizia fornendo informazioni su individui indesiderabili, da segregare o da eliminare fisicamente. Da sistema di protezione sociale, l’assistenza pubblica si trasforma quindi in una sorta di “polizia medica” finalizzata all’individuazione, all’interno delle classi sfavorite, di coloro che sono considerati portatori di una minaccia per la società[10].
La maggioranza di queste persone venne ritenuta passibile di segregazione e di annientamento in quanto Asozialen, asociali, perché da troppo tempo disoccupati, perché avevano commesso piccoli delitti contro il patrimonio, perché si erano prostituiti, perché avevano malattie considerate ereditarie, perché erano portatori di invalidità gravi, perché avevano comportamenti matrimoniali o sessuali irregolari, perché avevano ripetutamente assunto atteggiamenti antagonisti e di protesta sul luogo di lavoro o contro rappresentanti di istituzioni, perché avevano cambiato troppo di frequente residenza, perché erano stati colti troppe volte sui mezzi di trasporto pubblici senza il biglietto[11].
È importante sottolineare che, all’inizio del regime nazista, i primi campi di concentramento erano chiamati Arbeitshäuser, ossia ospizi organizzati sul modello delle Workhouses anglosassoni ottocentesche[12], dove venivano alloggiati i cosiddetti asociali, i quali in cambio di assistenza dovevano prestare un servizio di lavoro obbligatorio.
In base alla legge del 1924, istitutiva dell’assistenza ai poveri, veniva anche fissato per legge il lavoro coatto. Orbene, quando Hitler realizzò i primi provvedimenti di avviamento al lavoro per assorbire a tappe forzate la disoccupazione, lo fece richiamandosi alla legge sul lavoro coatto. [...] In questo contesto il rapporto di lavoro viene visto come un rapporto che non dà diritto a una retribuzione, perché è parte di una erogazione assistenziale, quindi si pone al di fuori delle norme del diritto civile che regolano il rapporto di lavoro; non avendo il lavoratore diritto a una retribuzione, i servizi in natura che egli riceve, cioè vitto e alloggio, sono parte integrante dell’erogazione assistenziale, la quale si configura giuridicamente come un atto di diritto pubblico[13].
Il riassorbimento della disoccupazione da parte del regime nazista viene realizzato sulla base di questo strumento giuridico.
Il dato di fatto che la grande maggioranza dei lavoratori sono stati avviati al lavoro in maniera più o meno coatta [rende] poco credibile la tesi che il regime nazista sia stato un esempio molto avanzato di keynesismo. Più esatto sarebbe dire che il regime nazista ha combinato assieme alcune formule che potremmo chiamare keynesiane (finanziamento di opere pubbliche per creare posti di lavoro) con i meccanismi di tipo assistenziale ereditati dall’epoca weimariana e con – fattore assolutamente fondamentale – un sistema di coercizione e di repressione dentro il quale il lager è una componente essenziale della politica del lavoro[14].
Quando nel 1942 la conferenza di Wannsee sancirà la distruzione sistematica della razza ebraica, l’Arbeitseinsatz (la struttura dei lager incaricata di organizzare e distribuire il lavoro forzato dei detenuti nei vari settori industriali) dovrà adempiere anche alle funzioni di sterminio. Dal momento in cui viene decisa la “soluzione finale”, si determina una tensione fra le due funzioni dei campi – quella di serbatoi di forza lavoro e quella di luoghi di sterminio – che perdurerà sino al crollo del regime.
Nell’odierna società neoliberale, la riconversione delle protezioni sociali in strumenti di sorveglianza e di coercizione per fini punitivi è diventata la regola, nella misura in cui la classe dirigente ha optato per una politica di sostituzione del Welfare State con uno stato poliziesco e penitenziario all’interno del quale la criminalizzazione della povertà e la reclusione delle categorie più diseredate svolgono la funzione di politica sociale. In altri termini, il padronato ha deciso di costruire per i poveri non case popolari, ospedali, asili o scuole, ma centri di reclusione. Per tutto il corso degli anni 90, gli Stati Uniti sono stati il laboratorio di questa nuova forma del governo della miseria per mezzo della prigione.
Nel momento in cui nello Stato postkeynesiano la differenza tra settore sociale e quello penale diventa indistinguibile, l’istituzione carceraria opera sempre più in concerto con gli organismi e i programmi volti a portare “assistenza” alla popolazione diseredata. In primo luogo, si può rilevare come la logica panottica e punitiva del campo penale tende a contaminare e ridefinire gli obiettivi e i dispositivi dell’assistenza sociale[15].
La riforma del Welfare promossa da Bill Clinton nel 1996 va in questa direzione: i destinatari delle sovvenzioni pubbliche subiscono un controllo invasivo dei loro comportamenti – in materia di istruzione, lavoro, droga, sessualità – che può dare luogo a sanzioni amministrative o penali. È il caso della legge federale One Strike You’re Out sulle case popolari, in base alla quale basta la presenza di un solo condannato all’interno di una famiglia residente, perché l’intero nucleo familiare venga sfrattato, indipendentemente dall’età o dalla vulnerabilità sociale dei suoi componenti. I più colpiti sono stati i tossicodipendenti, con a carico reati di spaccio, e le loro famiglie[16].
Le prigioni, d’altra parte, devono volens nolens farsi carico, spesso in situazioni di emergenza e con mezzi di fortuna, dei problemi medici o sociali che la loro “clientela” non ha modo di risolvere altrove. Nelle metropoli, quindi, la prigione di contea si trasforma, per i più poveri, nel dormitorio e nella casa di cura di più facile accesso[17].
Nel ciclo di lezioni al Collège de France del 1978-1979, Foucault traccia una storia della coppia liberalismo-governamentalità (il liberalismo come arte di governo degli uomini e la governamentalità come razionalità politica liberale) che potrebbe essere considerata come una genealogia del nazismo. Per quanto riguarda invece il socialismo, Foucault ritiene che ad esso non manchi tanto l’elaborazione di una teoria dello Stato, quanto piuttosto una definizione specifica e positiva della razionalità di governo. Se è vero che il socialismo si è sforzato di realizzare forme razionali di organizzazione economica della società e dell’assistenza, è però altrettanto vero che, al contrario del liberalismo, non ha saputo approntare un’arte del governo adattabile alle diverse situazioni politiche.
Non c’è una razionalità di governo del socialismo. Come la storia ha mostrato, in realtà, il socialismo può essere attuato solo innestandosi su vari tipi di governamentalità. Nel caso della governamentalità liberale, il socialismo e le sue forme di razionalità svolgono il ruolo di contrappeso, di correttivo, di palliativo rispetto a dei pericoli interni. D’altra parte, si può rimproverargli, come fanno i liberali, di costituire a sua volta un pericolo, ma in ogni caso il socialismo ha vissuto, e ha funzionato effettivamente all’interno di governamentalità liberali, e innestato su di esse. Si è visto, e si continua a vedere, che funziona soprattutto all’interno di governamentalità che sembrano riconducibili a quello che [...] abbiamo chiamato Stato di polizia, vale a dire uno Stato iper-amministrativo, in cui tra governamentalità e amministrazione c’è una sorta di fusione e continuità che forma un blocco massiccio; [...] il socialismo funziona come la logica interna di un apparato amministrativo[18].
La riflessione foucaultiana sottolinea come durante la Repubblica di Weimar il socialismo, lungi dal costituire un’alternativa al liberalismo, abbia favorito il suo consolidamento. Qui non si tratta di affermare che liberalismo e socialismo si collocano allo stesso livello; tuttavia, anche se loro divergenze sono innegabili, dal punto di vista delle pratiche di governo essi convergono in una sorta di simbiosi sciagurata. In fondo, Lenin non aveva poi così torto a definire il ceto dirigente del Spd come una cricca di “volgari liberali”.
Il progetto di un “socialismo democratico” – movimento di riforma delle libertà che si distacca dal comunismo rivoluzionario e si riconosce nella democrazia parlamentare – sarà inevitabilmente condannato ad essere subalterno al liberalismo, sempre che non riesca ad elaborare un nuovo sistema di libertà che implichi la gestione, l’organizzazione e quindi il governo delle condizioni a partire dalle quali si può essere liberi. Riconosciuti i limiti del socialismo, non si può tuttavia non ricordare che il liberalismo classico ha dovuto includere l’elemento differenziale della razionalità economica socialista per far fronte alle trasformazioni strutturali verificatesi tra la fine del XIX e il primo trentennio del XX secolo. I mali dell’industrializzazione, la pressione della questione sociale, l’espandersi dell’imperialismo, le tendenze bellicose del nazionalismo che sfociano nella Prima guerra mondiale, incrinano la fiducia nel liberalismo economico come dottrina del governo minimo e del laissez-faire (la concezione del libero scambio e della concorrenza come tendenze spontanee e naturali della relazione economica), ma anche la convinzione del primato politico della libertà sull’eguaglianza, dell’individuo sulla collettività. In questa fase storica, i liberali sono sempre più portati ad abbandonare il loro credo nello Stato “guardiano notturno”, cioè in uno Stato che ha poteri e funzioni limitatissime, per giustificare o addirittura sollecitare l’adozione di misure di sorveglianza statale sull’economia di mercato. Lo Stato, non come puro limite negativo, ma come strumento positivo di garanzie della libertà tanto nella sua dimensione economica quanto in quella politico-sociale: è questo il mutamento che va attuato per una modernizzazione della democrazia liberale. Insomma, una democrazia liberale all’altezza dei tempi deve in tutti i modi rilanciare la possibilità di conciliare individualismo e socialismo.
Secondo Foucault, l’arte di governo liberale è caratterizzata da un rapporto paradossale di “produzione/distruzione” nei confronti della libertà[19]. Infatti, lo stesso esercizio delle libertà comporta dei rischi che vanno controllati attraverso una serie di limitazioni, di coercizioni e di obblighi. Nel liberalismo, la libertà non è una ricchezza o un bene universale da rispettare e tutelare, ma un qualcosa che si fabbrica in ogni istante. Tale fabbricazione ha dei costi e c’è sempre qualcuno che, più di altri, deve pagarne il prezzo. Il principio che il liberalismo utilizza per il calcolo e l’assegnazione di questi costi è in definitiva quello della sicurezza. L’economia di potere del liberalismo si gioca nell’oscillazione costante tra libertà e sicurezza, il cui punto mediano è costituito dalla nozione di pericolo.
Il liberalismo produce la ricchezza e il benessere collettivi attraverso una mediazione costante fra i molteplici interessi dei governati; nello stesso tempo, però, esso deve vigilare in modo che l’interesse economico collettivo non interferisca con gli interessi individuali. Affinché la “meccanica degli interessi” non metta in pericolo né gli individui né la collettività sono necessari dei dispositivi di regolazione in grado di garantire uno stato di equilibrio degli interessi stessi. In questo quadro, il socialismo interviene nel campo delle libertà economiche delle forze produttive per garantire che la libertà dei processi economici non costituisca un “pericolo per i lavoratori”[20]. Tuttavia, per ottenere questo risultato, esso deve a sua volta imbrigliare la libertà dei lavoratori affinché non diventi un pericolo per l’impresa e la produzione. È dunque attraverso la logica del do ut des che il socialismo svolge un ruolo nella meccanica degli interessi. In tal senso, si può affermare che nella modernità i partiti e i sindacati di sinistra hanno potuto consolidarsi solo in quanto strumento di mediazione dei conflitti. Il patto tra socialdemocratici e liberali che sta alla base dello “Stato popolare” democratico può essere sintetizzato nel modo seguente: regolazione-controllo dell’insubordinazione operaia in cambio della cogestione del potere statuale. Quando il conflitto non è più riconducibile entro i limiti della valorizzazione capitalistica o dell’ideologia del lavoro, allora sia i partiti che lo Stato lo bandiscono dallo spazio democratico, designando i suoi attori come nemici, criminali o terroristi. Nel corso della modernità, il partito socialdemocratico si è imposto come il dispositivo di sicurezza più efficace per normalizzare la turbolenza operaia. Il suo scopo ultimo, in effetti, è sempre stato quello di riassorbire al proprio interno – all’interno della “rappresentanza” che media l’interesse di classe – ogni movenza del conflitto. In sostanza, la conflittualità autonoma deve subire prima o poi una battuta d’arresto e consegnare la continuità del processo al partito, con il voto. Quando la forma consensuale-democratica si rivela incapace di riportare i soggetti conflittuali a una medietà sociale, allora entra in scena la polizia con la repressione-annientamento dell’autonomia politica della classe. Da questo si può dedurre che i partiti e i sindacati socialdemocratici hanno svolto una funzione di contenimento della crescita politica autonoma del proletariato, piuttosto che porsi al servizio della sua auto-organizzazione. Diverso è forse il caso in cui un partito è espressione diretta di un movimento rivoluzionario.
Nel quadro del governo liberale, il socialismo e le sue forme di razionalità svolgono un ruolo di contrappeso rispetto a certi pericoli interni, in particolare i movimenti autonomi di resistenza e di rivolta proletaria che, tra il XIX e il XX secolo, hanno provato a rovesciare l’ordine capitalistico. In questo caso, si tratta evidentemente di una funzione repressiva agita di concerto con le forze di polizia, dal momento che questi movimenti, fuoriusciti dall’orbita di sicurezza di partiti e sindacati ufficiali, esprimono l’irruzione inquietante di una forza ingovernabile. È sulla base di questa lunga esperienza di sorveglianza “panoptica” dei comportamenti operai che durante la Repubblica di Weimar i socialdemocratici sono legittimati a ricoprire le cariche di Ministro degli Interni o di Capo della polizia. L’efficienza della sicurezza interna è stata da loro garantita attraverso la riorganizzazione della polizia in corpi speciali antisommossa utilizzati principalmente contro anarchici e bolscevichi. Questa riconfigurazione cripto-fascista è stata realizzata da fanatici socialdemocratici adoratori del manganello come Carl Severing (Ministro degli Interni del Reich), Otto Braun (Primo Ministro del governo prussiano), Karl Zörgibel (capo della polizia di Berlino). Personaggi che non dimostrarono altrettanto zelo nel prevenire e reprimere lo squadrismo nazista. Il giudizio sui capi della Spd, che ancora nel 1932 si accanivano a considerare il bolscevismo il principale nemico della democrazia weimariana, non può che essere di disprezzo e di condanna per la loro profonda miopia politica.
È bene ricordare che i primi campi di concentramento in Germania non furono ad opera del regime nazista, bensì dei governi socialdemocratici, che non soltanto nel 1923, dopo la proclamazione dello stato di eccezione, internarono [...] migliaia di militanti comunisti, ma crearono anche a Cottbus-Sielow un Konzentrationslager für Ausländer che ospitava soprattutto profughi ebrei orientali e che può, pertanto, essere considerato il primo campo per gli ebrei del nostro secolo (anche se, ovviamente, non si trattava di un campo di sterminio)[21].
In tal senso, bisogna ricordare che, in Italia, i centri di permanenza temporanea (Cpt) sono stati istituiti dalla legge 40 sull’immigrazione del 1998, durante il governo Prodi, a conferma di questa vocazione alla razionalizzazione repressiva della socialdemocrazia. Nonostante i contorsionismi linguistici di cui hanno dato prova ministri, prefetti e giornalisti, i Cpt non sono altro che campi di internamento, spazi in cui si recludono e puniscono persone che non hanno commesso alcun reato.
I ministri socialdemocratici del governo weimariano furono uomini di tendenze apertamente autoritarie che identificavano la socialdemocrazia con il mantenimento dell’ordine pubblico, l’inviolabilità dello Stato sociale e della sua burocrazia, l’intesa corporativa e consociativa tra sindacati e grande capitale. I capi dell’Spd, che tra gli anni 1919-1930 hanno ricoperto incarichi ministeriali e presidenziali, hanno perseguito con grande cinismo e spregiudicatezza una prassi di governo fondata su decreti che revocavano continuamente i principi formali di libertà e legalità dello Stato di diritto. In realtà, a ben guardare, la razionalità politica che sorregge questa forma di governo, si trova già tutta dispiegata nell’articolo 48 della Costituzione di Weimar:
Se nel Reich tedesco la sicurezza e l’ordine pubblico sono seriamente disturbati o minacciati, il presidente del Reich può prendere le misure necessarie al ristabilimento della sicurezza e dell’ordine pubblico, eventualmente con l’aiuto delle forze armate. A questo scopo egli può sospendere in tutto o in parte i diritti fondamentali contenuti negli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153[22].
L’articolo aggiungeva che una legge avrebbe precisato le modalità complessive di questo potere presidenziale. Poiché la legge non è stata mai votata, i poteri eccezionali del presidente sono rimasti a tal punto indeterminati che si è avvertita la necessità di introdurre l’espressione «dittatura presidenziale». Quasi tutti i governi della Repubblica hanno fatto continuamente ricorso all’articolo 48 per proclamare lo stato d’eccezione ed emanare decreti d’urgenza.
È noto come gli ultimi anni della Repubblica di Weimar si siano svolti interamente in regime di stato di eccezione. Per quanto detto, tuttavia, lo stato d’eccezione può essere visto anche come un effetto della governamentalità liberale. Infatti, il liberalismo è portato a fabbricare incessantemente libertà, ma per bloccare tale produzione ipertrofica ha bisogno di una serie di contrappesi che gli consentano di revocare i principi su cui si fonda, fino alla sospensione dello Stato di diritto. Nel suo sviluppo storico, il liberalismo ha trovato la possibilità di legittimare tale “autosospensione” in nome della protezione della società dai pericoli che la minacciano. Le cause dell’ascesa del nazismo vanno dunque ricercate anche nelle pieghe del governo liberale, nell’estensione abnorme di quelle procedure di controllo, costrizione e coercizione che costituiscono il rovescio della medaglia della produzione di libertà, e che la socialdemocrazia ha costantemente sostenuto e incrementato.
Negli anni della crisi finale di Weimar (1930-1933), la prassi dei decreti-legge mette fuori gioco i meccanismi formali della democrazia parlamentare. Il principio dell’autosospensione, che sottende la decretazione d’urgenza, si enuncia pressappoco così: nessun sacrificio è troppo grande per la difesa della democrazia, meno che mai il temporaneo sacrificio della democrazia stessa. La fine della Repubblica mostra con chiarezza che la trasformazione della democrazia costituzionale in una democrazia blindata non produce come risultato una democrazia, e che il paradigma dell’autosospensione temporanea dello Stato di diritto, giustificata per ragioni di sicurezza, funziona come ponte verso l’instaurazione di un regime totalitario in cui le libertà personali saranno sospese per sempre.
Con il Congresso di Bad Godesberg (1959) la Spd accantona Marx e aderisce al complesso di teorie, programmi e pratiche di governo del neoliberalismo, seguita poi da tutti gli altri partiti socialdemocratici occidentali. In questo senso, non è azzardato affermare che, almeno a partire dagli anni 50-60 del secolo scorso, vi è soltanto liberal-socialdemocrazia. Nel processo che ha portato le società occidentali verso il modello governamentale, la sinistra ha giocato un ruolo essenziale. È anche in questo connubio sciagurato che – oggi come ieri – si annidano le nuove forme di fascismo.
[1] N. M. de Feo, Razionalizzazione, appropriazione e sovversione in Weber, Sombart e Marx.
Una introduzione, in Id., O. Marzocca (a cura di), Ragione e rivolta. Saggi e interventi 1962-2002, Mimesis, Milano 2005, p. 316.
[2] M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello Stato postmoderno, Manifestolibri, Roma 1995, p.76.
[3] N. M. de Feo, Autonomia operaia e militarizzazione dello Stato dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich [qui, linkare alla nostra trascrizione!], in O. Marzocca (a cura di), La solitudine non è una festa. Il pensiero militante di Nicola Massimo de Feo, Mimesis, Milano 2006, pp. 13-14 e 17.
[4] S. Bologna, Nazismo e classe operaia. 1933-1993, manifestolibri, Roma 1996, pp. 95-98.
[5] Ivi, pp. 98-99.
[6] Ivi, p. 101.
[7] Ivi, p. 102.
[8] Ivi, p.104.
[9] Action 30, La croce della normalità / L’invasione dei supernormali, Edizioni Action30, Bari 2007, n. 1, p. 20.
[10] Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France 1976,
Feltrinelli, Milano 1998; M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-1975, Feltrinelli, Milano 2000.
[11] S. Bologna, op. cit., p. 110.
[12] Cfr. J. London, Il popolo degli abissi, Robin Edizioni, Roma, 2008; G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, il Mulino, Bologna 1998.
[13] S. Bologna, op. cit., p. 111.
[14] Ivi, pp. 112-113.
[15] J. D. Wacquant Loïc, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 72.
[16] P. Bourgois, Cercando rispetto. Drug economy e cultura di strada, DeriveApprodi, Roma 2005.
[17] J. D. Wacquant Loïc, op. cit., p. 73.
[18] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, Feltrinelli, Milano 2005.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 186.
[22] G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 24-25.