Roberto Nigro, 24/05/2021
Materiale datato: 01/01/2015
Le pagine che il filosofo italiano Nicola Massimo De Feo, scomparso nel 2002, ha dedicato alla questione della sovversione e della liberazione sono tra le più belle della sua opera[1]. Ma sono al tempo stesso tra le più problematiche, perché pongono dei problemi spinosi per la filosofia politica contemporanea. De Feo pone al centro della sua analisi il romanzo di Dostoevskij, I demoni, a partire da cui ha sviluppato una serie di riflessioni sul tema della guerra civile, della rivoluzione sociale, della sovversione e della liberazione. Nella filigrana del demoniaco, De Feo scorge il delinearsi del tema dell’antagonismo e della sovversione sociale[2].
Vorrei riprendere qui alcune delle sue riflessioni su questo problema per poi dedicarmi a mia volta ad alcune considerazioni sulla questione della guerra civile.
Secondo De Feo, nella seconda metà del XIX secolo, il tema della guerra civile viene ad essere interpretato in maniera del tutto innovativa dalla penna di uno dei più grandi romanzieri di questo secolo, Fëdor Dostoevskij. Il suo romanzo I demoni è un documento storico e psicologico magistrale per interpretare questo problema. In maniera cupa e reazionaria, I demoni descrive una pratica e una teoria che influenzeranno il futuro politico e sociale dell’Europa. Dostoevskij attacca in particolare la teoria politica di Sergej Nečaev. Fornisce, lungo tutto il romanzo, una rappresentazione rovesciata del processo moderno della rivoluzione sociale[3].
Sergej Nečaev fu un anarchico russo, nato vicino a Mosca nel 1847. Per un certo periodo, si era attribuito la paternità del Manifesto del partito comunista scritto da Marx ed Engels. Non esitò ad impiegare tutti i mezzi della violenza, dell’attentato, della menzogna anche dentro la sua stessa organizzazione rivoluzionaria, per liberare – diceva – «l’uomo dalle catene della sua schiavitù». Quando Ivan Ivanov, un membro dell’organizzazione di Nečaev, viene trovato morto nel 1869, eseguito dallo stesso Nečaev per tradimento, i membri dell’organizzazione di Nečaev, che si chiama “Giustizia del popolo”, vengono arrestati. Nečaev riuscì a sfuggire all’arresto e a rifugiarsi in Svizzera. Nel 1871, le autorità zariste danno avvio a un processo contro i membri della sua organizzazione e pubblicano gli scritti del gruppo. Su invito dell’internazionale operaia, Marx attacca e denuncia l’azione di Nečaev, qualificandolo come criminale e anti-operaio. Poiché il suo fine era quello di svalorizzare il movimento anarchico, incluso Bakunin. È in questa congiuntura che Dostoevskij entra in gioco nell’affaire Nečaev per dipingere, attraverso il suo romanzo I demoni, l’immagine di un’azione rivoluzionaria come prodotto tragico dell’umanismo e del socialismo moderno. Ciò che Dostoevskij descrive nella forma mistica del tragico non è nient’altro che la forma rovesciata del processo di sovversione sociale che attraversa la società moderna[4].
Dostoevskij insiste sulla dinamica di distruzione interiore e soggettiva dei valori esistenti. Nelle pagine del suo romanzo, la guerra civile assume una forma microfisica[5]. Essa si insinua nel quotidiano, nella sua dimensione più intima, nell’ordine sociale e, in questo modo, scardina gli elementi di stabilità, di sicurezza, di garanzia. Così Dostoevskij fa della guerra civile una forza di rottura e di sovversione dell’esistente.
L’intera dimensione della moralità individuale e intersoggettiva viene messa in discussione: la persona umana, la famiglia, lo Stato, il bene e il male, la bellezza, la fede, la religione, la speranza, le ideologie. La guerra civile assume la forma di una rivoluzione sociale, cioè di una rivoluzione che non ha più alcun carattere ideologico e politico. Non è l’espressione di una classe determinata; non è il prodotto di un progetto politico. Da ciò segue che debba essere differenziata dalla rivoluzione politica, perché quest’ultima è, al contrario, il prodotto storico della cultura e della coscienza moderna liberale, socialista e/o anarchica.
Se, da un lato, la rivoluzione politica esprime la forma razionale e compiuta dell’azione del soggetto, dall’altro la rivoluzione viene provocata da una miseria estrema e da una disperazione assoluta; miseria e disperazione che sono vissute nelle forme dell’abiezione e del degrado della condizione umana. Perciò l’azione dei rivoluzionari non può che essere descritta nella dorma del demoniaco. L’azione demoniaca dei rivoluzionari si sviluppa come una necessità tragica, come se operasse al di là ed indipendentemente dalla volontà degli individui, al di là dei soggetti e della loro coscienza. Lo scandalo, la corruzione, il fallimento, il rimorso, la menzogna, l’abuso, l’ironia, il paradosso, la criminalità, il tradimento, la dissoluzione fino al degrado, l’assassinio, il suicidio sono la serie reale di un processo sociale che esprime l’azione rivoluzionaria, quando questa è spogliata della sua forma ideologica e riconosciuta in quanto guerra civile. Qui, la guerra civile e la rivoluzione non operano in alternativa all’esistente; non propongono un altro modello sociale, ma sono il fondamento su cui l’esistente poggia. Da cui il carattere impersonale della rivoluzione sociale e anche la sua inesorabilità. L’azione rivoluzionaria eccede la possibilità di controllo sui soggetti e mobilita tutta la potenzialità distruttrice del rovesciamento sociale. La categoria etica e religiosa di cui si serve Dostoevskij, cioè il demoniaco, indica precisamente il fatto che l’azione rivoluzionaria sfugge dalle mani; essa si autonomizza dai soggetti che però le hanno dato il primo slancio; li trascina nel suo corso di distruzione che prende la forma dell’inesorabile e dell’impersonalità.
L’analisi di Dostoevskij ha un preciso obiettivo: travolgere la rivoluzione sociale riducendola alla forma totalitaria del terrorismo politico. Sono il nichilismo e il terrorismo di Sergej Nečaev ad essere l’obiettivo della critica. Senza dubbio è anche la forma d’esistenza a cui Nečaev dà vita che deve essere demolita.
Nečaev, questo gigante della rivoluzione, come più tardi sarà definito da Lenin, è anche un gigante dell’immoralismo politico. Si serve di chiunque; usa Bakunin fino al momento della loro irreparabile rottura, che si genera dal problema etico e politico della violenza e della scienza rivoluzionaria nel 1870. Dopo la rottura con Bakunin, si installa a Parigi per partecipare agli eventi della Comune, in seguito andrà a Londra, dove fonda una rivista che si chiama La Commune, sulla quale teorizza il più sfrenato immoralismo politico. Nečaev viene arrestato in Svizzera nel 1872 e ricondotto a Mosca, dove sarà condannato a vent’anni di lavori forzati come criminale comune. Pur essendo in prigione, sarà capace di mantenere i suoi contatti con i membri dell’organizzazione “Volontà del popolo”, l’organizzazione rivoluzionaria russa che ha ereditato la pratica e i principi dell’organizzazione di Nečaev. La sua organizzazione prepara la sua evasione, che però non va a segno. Partecipa attivamente anche all’attentato dello zar Alessandro II.
Dostoevskij critica radicalmente il Catechismo del rivoluzionario di Nečaev, il manifesto politico di questo rivoluzionario russo in cui la libertà assoluta si confonde con il totalitarismo assoluto. Se l’esercito dei dannati di Dostoevskij è popolo d’assassini, di alcolizzati; se si macchia di una varietà infinita di atrocità, è perché la rivoluzione sociale deve essere squalificata e relegata nel sottosuolo della dannazione come prodotto di una sub-umanità. Al centro della scena si trova il potere distruttivo e suicida della rivoluzione sociale. Il demoniaco è il cuore e la sintesi della rivoluzione sociale in quanto potere distruttivo e catastrofico inscritto nello sviluppo moderno.
Se Dostoevskij attacca l’azione e il pensiero di Nečaev, è perché comprende la tragica necessità dell’opera e del pensiero di questo rivoluzionario. Rovesciando il senso storico e sociale della rivoluzione sociale, Dostoevskij sottolinea, in qualche modo, che il nečaevismo sia il prodotto e il punto d’approdo inevitabile e insostituibile della storia e della teoria moderna della libertà che, in quanto libertà assoluta e illimitata, si trasforma così in dispotismo.
Ritroviamo anche Nietzsche tra i grandi lettori dell’opera di Dostoevskij. Nei suoi frammenti postumi del 1887, Nietzsche presta grande attenzione al romanzo di Dostoevskij. I frammenti dedicati all’elaborazione del suo concetto di volontà di potenza testimoniano il fascino esercitato dallo scrittore russo. Il concetto nietzschiano di volontà di potenza riprende in parte il principio di Nečaev della violenza come principio che anima e regge il divenire della storia e della natura, che regola il rapporto antagonista unendo disperazione e liberazione, angoscia e benessere. Offesa, violenza, sfruttamento, oppressione, appropriazione, non sono solo degli elementi e delle forme necessarie della vita, ma anche le condizioni e gli strumenti per liberare la vita. Nietzsche esprime così un’idea che ritroviamo anche alla base della critica dell’economia politica di Marx, ovvero l’idea secondo cui lo sfruttamento sia la condizione per la liberazione, la forma concreta di riappropriazione della vita.
Questo movimento si esprime nell’impersonalità dell’azione distruttrice che domina le volontà individuali. l’azione si produce con una necessità impersonale, come un destino che obbliga a uccidere e a venire uccisi. La violenza e la menzogna verso se stessi e verso gli altri diventano una necessità e una condizione naturale della vita. È una sorta di disperazione, che potremmo chiamare con Kierkegaard la «malattia mortale» o con Nietzsche «l’inversione di tutti i valori»; è una disperazione che potremmo comprendere anche meglio se guardassimo a Marx quando parla della violenza come l’ostetrica della storia, come lotta politica non solo tra classi, ma tra individui, gruppi sociali. Ovvero quando Marx analizza il passaggio dalla lotta fra le classi alla guerra civile e all’antagonismo sociale diffuso.
Tuttavia, in questo percorso Marx rappresenta un caso a parte, perché definisce i rapporti tra la rivoluzione sociale e la rivoluzione politica in una forma molto complessa. Marx definisce questo come un rapporto di differenziazione radicale; nei suoi scritti giovanili, questa differenziazione passa attraverso l’idea secondo cui vi sia, da un lato, l’emancipazione umana, totale, che si identifica con il socialismo e il comunismo e, dall’altra parte, un’emancipazione politica, parziale e determinata dallo Stato moderno. Questa differenziazione è anche una relazione, vale a dire un’esclusione inclusiva, perché, per Marx, l’azione rivoluzionaria sociale ha bisogno dell’azione politica. Allo stesso tempo, per rovesciare il potere esistente e dissolvere i vecchi rapporti sociali, l’azione politica ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. La rivoluzione politica ha bisogno dell’azione sociale.
Ma nella teoria di Nečaev questo rapporto viene teorizzato in maniera differente. Nečaev accentua l’autonomia sociale dell’azione rivoluzione da quella politica. Dedica maggiore attenzione al carattere dell’insurrezione di massa come disperazione. La disperazione è ciò che permette la negazione sociale e politica dello stato presente di cose, della sua morale e dei suoi valori. Per Nečaev, la rivoluzione politica è la riproduzione del potere formale; essa riproduce il sistema dominante della dominazione e dello sfruttamento. La rivoluzione sociale, al contrario, produce e presuppone un soggetto antagonista, il proletariato sociale, che è egalitario e collettivo per natura e rifiuta la logica del dominio e della gerarchia della divisione sociale del lavoro.
Nel Catechismo del rivoluzionario (1869) scritto da Nečaev (ma a lungo attribuito a Bakunin, che invece aveva scritto il Catechismo rivoluzionario nel 1866[6]), la rivoluzione sociale viene definita come il movimento che distruggerà totalmente l’idea di Stato. Si tratterà di una distruzione talmente radicale che rovescerà qualunque tradizione, legge e classe sociale. La rivoluzione sociale si differenzia da qualunque rivoluzione politica o rivoluzione di ispirazione democratico-borghese in quanto non si limiterà a sostituire una formazione politica con un’altra. Se, nel suo modello classico, la rivoluzione borghese e socialista si ferma sulla soglia della proprietà e dell’ordine sociale tradizionale, la rivoluzione sociale ha come suo tratto distintivo il suo puntare alla distruzione della civiltà, della morale e dell’ordine che ha regnato fino ad ora. Nella sua opera, Nečaev afferma che il compito del rivoluzionario consiste nel potere a termine la totale, terribile, implacabile distruzione universale. Non si tratterà di imporre al popolo alcuna organizzazione autoritaria, perché la futura organizzazione nascerà «dal movimento della vita», come scrive. La distruzione, centro dell’attività rivoluzionaria, deve essere totale e deve investire l’intera società; deve rompere tutte le forme di potere dominante, tutte le classi e lo Stato. La lotta rivoluzionaria deve appropriarsi di tutti gli strumenti della lotta, della conquista e dell’uso del potere per impedire che la lotta di classe, individuale o sociale, riproduca il potere delle nuove classi e crei nuovi rapporti di dominio. La distruzione è liberatrice se è totale, se distrugge qualunque forma di riproduzione della dominazione. L’azione rivoluzionaria è totale e sociale perché attacca il sistema in quanto tale. L’anarchia e il nichilismo sono anche i caratteri specifici della rivoluzione sociale. la rivoluzione sociale non ha più alcun carattere particolare legato ad una classe o ad un soggetto specifico, ma è il movimento che libera tutte le forze del sottosuolo[7].
Sappiamo che i principi della teoria di Nečaev sono stati sottoposti alla critica di Marx. Marx attacca una rivoluzione diretta dal sottoproletariato come anti-operaia, reazionaria, criminale e totalitaria. L’immoralismo di Nečaev, la violenza cieca e criminale, il terrore, la menzogna non fanno che rovesciare il posto centrale che la classe operaia e l’internazionale occupano nella rivoluzione. Marx definisce l’ideologica anarchica come una sorta di odio del piccolo commerciante o dell’artigiano che si sente minacciato dallo Stato e da qualunque centralizzazione di forze operose. L’anarchia per Marx non è altro che lo strumento di un nuovo assoggettamento dispotico delle masse operazione. Ciò che l’ambizione di Bakunin e di Nečaev vuole realizzare è solo il sogno di una società in cui si lavora molto e si consuma poco.
Bisogna dire che questa critica feroce di Marx è al tempo stesso una paradossale deformazione ideologica dell’anarchismo di Bakunin. In un certo senso, mostra l’incapacità di Marx di sottrarsi dalla solidarietà di partito del marxismo degli operai professionali che dominano l’Internazionale marxista, contro cui Bakunin e Nečaev hanno esaltato il valore rivoluzionario degli operai manuali, degli operai non qualificati, della teppaglia, dei milioni di non civilizzati, poveri e analfabeti che esistono sulla terra. Si tratta di quella parte del proletariato che Marx ed Engels hanno chiamato, in maniera sprezzante e pittoresca, il Lumpen-Proletariat. Ma si tratta di una parte del proletariato che, in realtà, non ha il suo posto teorico e storico all’esterno, ma all’interno dello sviluppo capitalistico. È ancora più paradossale, perché Marx stesso spiega con forza inaudita la struttura e la genesi di queste fasce sociali, mentre analizza le forme del lavoro astratto e lo sviluppo della grande industria e della produzione sociale nei Grundrisse. La logica capitalista produce e riproduce la «seconda società», cioè la società dei sottoproletari, dei nuovi soggetti espulsi, criminalizzati e marginalizzati dallo sviluppo capitalista; essa produce l’esercito degli «abreki», come li definisce Nečaev, vale a dire dei combattenti della disperazione, altrimenti detto l’esercito dei precari, dei marginalizzati, degli esclusi, dei migranti. Alla fine del XIX secolo, è ormai chiaro che esista una classe composita di operai non specializzati, non qualificati, che si distingue dal proletariato industriale, degli operai qualificati, professionali e politicamente organizzati.
Disarmare il sottoproletariato è un problema che si impone nello sviluppo del capitalismo industriale della fine del XIX secolo e che va di pari passo con l’espansione di un controllo che punta alle classi più basse e in ultima istanza agli operai.
Sono degli aspetti che sono stati presi in considerazione anche da Foucault in alcune delle sue analisi. Nella sua opera, Foucault non ha smesso, in effetti, di mostrare che il capitalismo non poteva funzionare con un sistema di potere politico indifferente agli individui: «è venuto un momento in cui è stato necessario che ciascuno fosse effettivamente percepito dall’occhio del potere», scrive. «Quando si ha avuto bisogno, nella divisione del lavoro, di gente capace di fare questo, altri capaci di quello, quando si ha avuto anche paura che movimenti popolari di resistenza, o di inerzia, o di rivolta arrivassero a rovesciare tutto questo ordine capitalista sul punto di nascere, allora c’è stato bisogno di una sorveglianza precisa e concreta su tutti gli individui»[8].
Questa sorveglianza ha assunto la forma di una lotta contro le nuove forme di saccheggio legate ai nuovi rischi assunti dalla ricchezza nel momento in si trasforma in capitale. Il capitale si espone al brigantaggio, al saccheggio, alla depredazione quotidiana. Foucault scrive: «Si è nella guerra sociale – non nella guerra di tutti contro tutti, ma nella guerra dei ricchi contro i poveri, dei proprietari contro chi non possiede nulla, dei padroni contro i proletari»[9].
I propositi di Foucault a riguardo sono ancora più importanti, perché situano l’emergenza della figura del nemico sociale dentro il contesto della guerra sociale. Ma i suoi propositi divergono radicalmente da quelli di Dostoevskij (per come li consociamo attraverso la lettura di De Feo) nella misura in cui non sfociano in una sorta di filosofia della storia in cui la guerra civile si confonderebbe con le figure gemelle del tragico e della disperazione. L’emersione della figura del nemico sociale, del criminale e anche dell’individuo pericoloso, quest’ultimo in rapporto con l’emersione dei discorsi psicopatologici o psichiatrici, può essere compresa, secondo Foucault, all’interno della storia del capitalismo e degli antagonismi che lo attraversano.
Una delle prime analisi della delinquenza nel XVIII secolo, sottolinea Foucault, si concentra sulla povertà e sulla mendicità. L’ozio è considerato come il padre di tutti i vizi e di tutti i crimini. Il crimine comincia quando non si ha stato civile, ovvero quando non si ha una localizzazione geografica. L’emersione della figura del vagabondo è legata all’idea di qualcuno che disturba la produzione, che è ostile ai meccanismi normali della produzione. Il vagabondo è qualcuno che rifiuta di lavorare: svolge una funziona anti-produttiva. Il crimine del vagabondo consiste nel rifiuto del lavoro. Si intreccia così un rapporto tra rifiuto del lavoro e violenza, perché il vagabondo non è solo qualcuno che rifiuta di lavorare ma è anche qualcuno che si appropria delle ricchezze per poter sopravvivere. Foucault sottolinea che questo tema del crimine come rottura del patto, del criminale in guerra con la società, del nemico sociale, può essere proprio un’eredità del pensiero di Hobbes e del pensiero politico moderno. Il criminale come colui che rompe il patto sociale.
La figura del criminale, del bandito, del vagabondo non è più una novità nello spazio politico dell’Europa moderna. I saggisti politici del XVI e del XVII secolo si sono preoccupati, per esempio, di congiurare i pericoli che derivano da certe figure sociali composite, che raggruppano sotto l’etichetta del ribelle. Bisogna però constatare che, nel XVI e nel XVII secolo, il ribelle in quanto tale non è considerato come portatore di una sovversione politica[10]. La protesta sociale, le rivolte, le jacqueries contadine, non implicano necessariamente la sovversione politica. E anche se le jacqueries contadine hanno giocato un ruolo molto importante in Europa, non hanno portato a delle modifiche della struttura statale[11]. Ciò di cui ci si preoccupa non è la jacquerie in quanto tale, ma la possibilità che possa essere sfruttata politicamente. Allo stesso modo, non ci si preoccupa del ribelle in quanto tale, ma della possibilità che diventi un ribelle politico e che la sua forza sia così sfruttata politicamente da altri soggetti politici interessati a rovesciare una situazione di potere. Gran parte del dibattito attorno alla ragion di Stato, verso la fine del XVI secolo, si sviluppa attorno a questi problemi.
Ma la situazione muta tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. L’accumulazione del capitale richiede nuovi meccanismi di controllo. Se, da una parte, l’apparato di produzione richiede di occupare e utilizzare gli uomini in maniera differente per aumentare la produttività del lavoro, dall’altro lato, qualunque fenomeno di rivolta, o semplicemente tutto ciò che rallenta la produzione, non può più essere tollerato. È all’interno di questo nuovo paesaggio del conflitto che le questioni del nemico sociale, della violenza e della guerra civile assumono tutta la loro portata.
Se le parole di Dostoevskij, nel XIX secolo, possono essere una traccia per mostrare come la guerra civile, nelle sue forme più cieche, sia il punto di caduta del nichilismo contemporaneo, dall’altro lato Foucault mostra che la guerra civile sia la matrice di tutte le lotte di potere.
Nel suo corso La società punitiva, Foucault ha dato grande rilievo alla nozione di guerra civile nelle sue analisi sulla pena. Egli intende mostrare che essa sia lo stato permanente a partire da cui si possono e si devono comprendere un certo numero di tattiche della lotta. Mostra che uno dei primi assiomi dell’esercizio del potere consiste nel negare la guerra civile, nel nasconderla, nell’affermare che non esista. La guerra civile, nel pensiero politico moderno, è considerata come un accidente, un’anomalia, ciò che bisogna evitare, perché si tratta di una mostruosità teorico-pratica[12]. Foucault aggiunge che la guerra civile è una nozione filosoficamente, politicamente e storicamente mal elaborata. Foucault indaga Hobbes per mostrare come nelle analisi del filosofo inglese la guerra civile non sia mai considerata come qualcosa di positivo, di centrale, e che possa servire da punto di partenza per l’analisi. Al contrario, Hobbes la neutralizza; la riconduce alla finzione di una guerra di tutti contro tutti, che sarebbe legata ad una dimensione naturale, universale dei rapporti tra gli individui in quanto individui. Essa viene presentata come qualcosa di precedente al patto sociale et che è condotta dall’individuo. Questo riferimento all’individuo è inoltre più importante in quanto l’individuo come entità singolare gioca una funziona anti-sociale: distrugge la vita sociale e la collettività.
Da parte sua, Foucault vuole mostrare invece che la guerra civile venga a verificarsi come lo scontro fra elementi collettivi e che, lontana da essere ciò che precede il patto sociale o ciò che si impone dall’esterno come lotta contro lo Stato, essa si svolga sul teatro del politico[13]. Essa è ciò che perseguita il potere. L’esercizio quotidiano del potere deve potere essere considerato come una guerra civile: esercitare il potere è, in un certo modo, condurre la guerra civile[14]. Il potere non sopprime la guerra civile, ma la guida e la continua.
Sappiamo che la riflessione di Foucault su questi problemi non si fermi al suo corso del 1973, ma che attraversa tutte le sue analisi durante la prima parte degli anni ’70 fino al corso Bisogna difendere la società, in cui riprende anche il suo confronto con l’opera di Hobbes. In seguito, dopo il 1976, la svolta spinge Foucault ad impegnare le sue riflessioni in una nuova traiettoria di ricerca, che implica l’abbandono della nozione di guerra civile e l’impiego di altre nozioni, come quella del governo, per esempio, che a suo avviso sono più operative per analizzare i fenomeni del potere[15].
[1] Nicola Massimo De Feo, L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, Lacaita, Manduria, 1992, in particolare il capitolo «Sovversione e liberazione», pp. 233-344. Per una discussione delle questioni che attraversano la sua opera, mi permetto di rinviare al mio testo : «Un nietzscheanesimo senza riserve. L’opera di Nicola Massimo De Feo tra Marx e Heidegger», in Ottavio Marzocca (a cura di), La solitudine non è una festa, Mimesis, Milano 2006, pp. 71-86.
[2] Per una lettura di queste tematiche alla luce del nichilismo europeo, cfr. Sergio Givone, Dostoïevski e la filosofia, Bari 2006.
[3] Un’analisi delle divese teorie della rivoluzione nell’epoca modarna è stata recentemente sviluppata da Florian Grosser, Theorien der Revolution, Hamburg 2013. Si veda anche Simon Critchley, The Faith of the Faithless. Experiments in Political Theology, London 2014, pp. 21-101.
[4] De Feo, L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, cit., pp. 5-51.
[5] Il concetto di microfisifica qui viene ripreso dall’opera di Michel Foucault. Mi limito a dare alcuni riferimenti : si veda M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris, 1975, p. 34, per la microfisica del potere. L’idea di guerra ritorna in filigrana nel suo corso al Collège de France del 1970-1971 Leçons sur La Volonté de savoir, seguito da Le savoir d’Œdipe, édition établie par D. Defert, Gallimard/Seuil, Paris 2011, in cui Foucault fa giocare l’opposizione tra il modello nietzschiano e quello aristotelico ; tuttavia, questa nozione, nella sua forma più particolare della guerra civile, è soprattutto al centro delle analisi del corso del 1972-1973 La société Punitive, édition établie par Bernard E. Harcourt, EHESS/Gallimard/Seuil, Paris 2013, e in Il faut défendre la société, Cours au Collège de France, 1976, éd. établie par Mauro Bertani et Alessandro Fontana, Gallimard/Seuil, Paris 1997. Questa dimensione della microfisica è anche al centro della riflessione di Gilles Deleuze e di Félix Guattari in Mille plateaux (Paris 1980). Si veda in particolare «1933, Micropolitique et segmentarité», pp. 253-283. Per una discussione approfondita su questo, si veda Etienne Balibar, Violence et civilité, Paris 2010, in particolare la prima parte: «De l’extrême violence au problème de la civilité».
[6] Jean-Christophe Angaut‚ «Le Catéchisme révolutionnaire ou le premier anarchisme de Bakounine», HAL, Ottobre 2013 : http://halshs.archives-ouvertes.fr/docs/00/87/60/55/PDF/CatA_RA_v.pdf.
[7] Su questi aspetti, mi permetto di rinviare al moi articolo «Sussunzione reale, sovversione e liberazione», in Futuro anteriore, III, Parigi 1996, pp. 160-170.
[8] M. Foucault, Le pouvoir, une bête magnifique (1977), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. III, p. 374. Si veda anche M. Foucault, L’impossible prison, dans Dits et écrits, vol. IV, pp. 20-34.
[9] Michel Foucault, La Société punitive, cit., p. 18.
[10] Cfr. Rosario Villari, «Il Ribelle», in L’uomo barocco, Laterza, Bari-Roma 1991, pp. 109-137.
[11] Cfr. Boris Porchnev, Les Soulèvements populaires en France de 1623 à 1648, Paris 1963. E anche Robert Mandrou, «Classes et luttes de classes en France au début du XVIIe siècle», in Pubblicazioni dell’Istituto di Storia della Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, n. 1, Messina-Firenze 1965.
[12] Michel Foucault, La Société punitive, cit., pp. 14-15.
[13] Ibid., p. 30.
[14] Ibid., p. 33.
[15] Per un’analisi approfondita di questi percorsi e della maniera in cui Foucault si libera della nozione di guerra civile, mi permetto di rinviare a R. Nigro, Wahrheitsregime, Diaphanes, Zürich/Berlin, pp. 11-31; Id.‚ De la Guerre à l’art de gouverner: un tournant théorique dans l’œuvre de Foucault?, in Labyrinthe, 21, 2005, pp. 15-26.