Ottavio Marzocca, 09/01/2021
Materiale datato: 01/01/2006
O. Marzocca, L'esperienza di Nicola Massimo de Feo. Elementi per una ricostruzione, in Aa. Vv., La solitudine non è una festa. Il pensiero militante di Nicola Massimo de Feo, a cura di O. Marzocca, Mimesis, Milano 2006, pp. 25-43.
In questo tentativo di fornire elementi utili alla ricostruzione dell’esperienza di Nicola Massimo de Feo, non potrò fare a meno di riprendere alcune indicazioni già proposte nella mia Presentazione della raccolta di suoi testi, che ho avuto il privilegio di curare recentemente[1]. Eviterò tuttavia di ripetere le linee di quel discorso, sia perché esso è a disposizione di chi voglia farsene un’idea confrontandolo direttamente con gli scritti di de Feo contenuti in quel volume, sia perché lo sforzo che vorrei fare qui è di andare oltre, cercando, appunto, di porre in relazione il pensiero con l’esperienza di de Feo.
Si tratta probabilmente di un’ambizione notevole o addirittura di una “pretesa”, anche a causa del fatto che Nicola è stato una delle persone più schive e riservate che mi sia capitato di conoscere. E contro questo dato di fatto serve a poco considerare che ho avuto modo per anni di collaborare con lui e di lavorare nella sua stessa stanza, all’Università di Bari. Perciò, inevitabilmente, il mio sarà un tentativo limitato e anche molto condizionato, da un lato, dalla prudenza che dovrò usare per sottrarmi al rischio di confezionare un’improbabile biografia (che non è affatto nelle mie intenzioni) e, dall’altro, dalla necessità di procedere spesso per congetture.
Insomma, se fosse necessaria un’avvertenza preliminare, direi questo: specie per certi dati iniziali, ciò che propongo qui è, deliberatamente e consapevolmente, una specie di “ricostruzione romanzata, ma non troppo”. E, naturalmente, se fosse opportuno porgere delle scuse preventive a chi non condivida questa “licenza” che mi concedo, sono senz’altro disposto a farlo.
Se un uomo come Nicola de Feo nasce nel 1939, nel bel mezzo del Ventesimo secolo, certamente crescendo non rimane indifferente a ciò che accade attorno a lui fin dall’inizio. Infatti, egli ha molto presto l’occasione di percepire che qualcosa di enorme sta succedendo, specie quando da bambino avverte il crepitio delle mitragliatrici o il boato dei cannoni o le sirene dell’allarme aereo: nel 1943, dopo l’8 settembre, le forze tedesche attaccano la sua città e la occupano per quasi due settimane, saccheggiandola, terrorizzandola, facendo decine di morti e di feriti, sia fra i militari che fra i civili - soprattutto fra i civili.
Nicola, anche se ha solo quattro anni e mezzo, o proprio per questo, ne rimane atterrito. E lo racconterà anche da grande. Comunque sentirà parlare ancora di quegli eventi, in anni successivi. E non potrà non interrogare gli adulti. Forse troverà sospetta, ingiustificata, una certa reticenza, la comoda propensione a spiegare l’accaduto dicendo: “i militari, o qualche civile, hanno provocato…”, quasi che Hitler non avesse organizzato da tempo la sistematica occupazione dell’Italia, la vendetta e la distruzione, per frenare l’avanzata angloamericana e stroncare ogni tentativo di resistenza[2].
Ma la cosa a Nicola fu presto chiara: quella “spiegazione” prevaleva perché molti degli adulti che gli capitava di interpellare, e soprattutto suo padre fra questi, erano stati, ed erano ancora, fascisti attivi e continueranno per anni a celebrare il ricordo del Duce e ad auspicarne il “ritorno”.
Uno come Nicola non avrà potuto non provare sconcerto, ricordando l’urlo delle sirene. Crescendo, si sarà dedicato a capire meglio il contesto di quelli e di altri avvenimenti più grandi, come pure di ciò che ancora stava accadendo. E certamente non gli saranno mancati né i mezzi né le occasioni.
I suoi amici di giovinezza lo ricordano come un’intelligenza lucida, come uno capace di studiare, scrivere, ragionare con un’efficacia di fronte alla quale si restava semplicemente ammirati. Qualcuno ricorda ancora: “non erano i professori a guidarlo, ma spesso era lui a guidare loro…”. Ma non è che a lui interessasse in modo particolare essere il primo della classe. Più che altro, vedeva che qualcosa di serio e di enorme continuava ad accadere, che bisognava cercare di capire a fondo anche attraverso la scuola.
Inutile dire che dalle sue parti le lotte dei contadini, dei braccianti, dei senza lavoro, segnarono gli anni dell’immediato dopoguerra. Ma non è superfluo ricordare che, ad esempio, nel fatidico 1956 Nicola ebbe forse una prova definitiva dell’impossibilità di stare a guardare e di evitare di andare al fondo delle cose.
Quell’anno ci fu un inverno terribile, di cui ancora si ricorda l’abbondanza delle nevicate, anche al Sud o soprattutto al Sud. Alla metà di marzo la rabbia di tremila braccianti guidati dalle loro donne, scesi in strada nella sua città per chiedere letteralmente “pane e lavoro”, stava per esplodere di fronte allo schieramento massiccio della polizia di Tambroni.
Qualche sasso fu lanciato, ci furono tafferugli, spari, qualche ferito... Gli animi però furono placati, prima che tutto precipitasse, dal sindaco socialista che trovò una soluzione per la distribuzione dei pacchi di viveri acquistati con gli aiuti degli americani, ma tenuti sotto chiave ed elargiti con troppa discrezionalità dal prete che li aveva in custodia presso alla Pontificia Opera di Assistenza.
Avute garanzie, i manifestanti cominciarono ad allontanarsi dal luogo del fronteggiamento, ma furono poi raggiunti e caricati dalla polizia che li inseguì fin dentro i vicoli più stretti, sparando. E alla fine si contarono tre morti fra i braccianti e molti feriti anche fra gli agenti[3].
1956: Nicola ha diciassette anni. Un’età sufficiente per uno come lui perché molte cose ormai gli siano chiare, ma anche per cercare di capirle ancora meglio: i fatti di Barletta, dopo quelli di Andria, di Comiso, di Venosa; l’Italia di Tambroni; la netta sensazione che il fascismo alligni ancora nelle istituzioni, oltre che nelle famiglie; l’impossibilità di accettare una società disposta a reprimere con le armi i disoccupati e a sfiancare gli occupati; ma anche i rumori lontani della rivolta e poi della repressione sanguinosa degli operai ungheresi; la speranza che con Kruscev la cappa staliniana venga rimossa dal socialismo sovietico.
È mentre rivolge la sua attenzione indignata, preoccupata, a simili “coordinate” del suo essere-nel-mondo che Nicola, nel 1958, decide di studiare filosofia all’università, per capire, per andare a fondo, per prendere parte con cognizione di causa. Più o meno negli stessi anni deciderà anche di iscriversi al Partito Comunista che gli era sembrato capace di dare voce al dolore degli uomini e delle donne che erano scesi in piazza fra i cumuli di neve.
Una volta iniziati i suoi studi universitari, Nicola non si precipita sul terreno dove la critica della società capitalistica è più diretta ed esplicita o, meglio, non si limita a fare questo. Una riflessione radicale sull’intrico inaccettabile in cui gli sembra imprigionata la condizione complessiva dell’uomo contemporaneo, gli pare debba essere svolta destabilizzando i modi consolidati della conoscenza della realtà. Sono questi modi, forse, che hanno favorito la propensione dominante a considerare il mondo come materia meramente impiegabile e a trattare alla stessa maniera anche l’umanità dell’uomo. Perciò, fra le letture alle quali si dedica subito e nel modo più ampio ci sarà Husserl: fra gli anni Cinquanta e Sessanta le traduzioni italiane delle sue opere si moltiplicano in modo incalzante. De Feo dimostrerà presto di saper leggere senza problemi il tedesco. Ma forse dedicherà questa capacità soprattutto ad altri pensatori dei quali si interesserà più a lungo: Heidegger, Weber, Nietzsche, Lukács, lo stesso Marx. Intanto Husserl, la fenomenologia, soprattutto ascoltando le lezioni di Giuseppe Semerari, gli sembrano una via di accesso al nocciolo del problema del rapporto dell’uomo con il mondo e con gli altri uomini: la contestazione, o meglio la sospensione, l’epoché, della realtà oggettiva, della conoscibilità reale del mondo; la riconquista della soggettività, dell’io dell’uomo, slegandolo dalle sue determinazioni naturali, psicologiche, antropologiche, sospendendo anche queste, senza negarle, senza affermarle; il ritorno al mondo-della-vita dal quale provengono quelle stesse scienze oggettivanti che sono in crisi e producono crisi, che pensano e trattano il mondo come un oggetto da fronteggiare, lo oggettivano e consentono la sua tecnicizzazione sfrenata e uno sfruttamento senza limiti dell’uomo: sospendere queste oggettivazioni, senza negarle, senza affermarle; ritrovare nella correlazione tra il mondo e la coscienza del mondo il ruolo costitutivo del soggetto uomo, la costituzione soggettiva del senso del mondo.
Qui è la chiave dell’approccio con il quale Nicola si avvicinerà anche ad Heidegger e ad altre figure, più o meno inquiete, più o meno infelici, che lo attirano: Kierkegaard e Nietzsche innanzitutto, ma anche Sartre, Camus, Dostoevskij ed altri ancora. Forse qualcuno di loro è andato persino più a fondo di Husserl nello scandaglio della crisi in cui l’uomo, la stessa società si sono incagliati. Ma questi autori riescono a svincolarsi davvero dalla loro propensione al gusto del tragico, alla rassegnazione, alla rinuncia?
De Feo insegue a lungo soprattutto Nietzsche e Heidegger. Li vede oscillare fra possibilità e impotenza, fra volontà di riscatto e nichilismo, ma comunque non vuole perderli di vista. Pensa che l’uomo nuovo – come dice con qualche ingenuità negli anni Sessanta (ma non è l’unico) – possa emergere in qualche modo anche dai loro tormenti. Si tratta, naturalmente, di verificare a fondo questa possibilità. La vicinanza ad Husserl di Heidegger, l’ispirazione fenomenologica della sua ontologia, portano de Feo a fare confronti, a denunciare fra l’altro una certa “malafede” del secondo e ad apprezzare meglio l’amore per la vita e per la ragione umana del primo. Ecco ad esempio ciò che scrive nel suo primo libro:
La fenomenologia di Heidegger non diviene trascendentale, come quella di Husserl, ma resta nell’esistenziale e nel problematico. L’essere come possibilità non diventa uno stabile livello, da cui l’esistenza possa essere garantita nella sua razionalità storica, ma resta sempre e soltanto possibilità di… […]
La funzione metodologica dell’epoché husserliana […] presuppone un’esistenza sana, integrata nelle sue possibilità positive, innamorata della vita, della ragione, aperta alla comprensione. […]
Nella fenomenologia heideggeriana non c’è la sospensione metodologica dell’assoluto, ma la sospensione assoluta, anche se provvisoria, dell’assoluto. […]. Nella sospensione assoluta dell’essere, l’essere riappare, distrutto. Alla base della fenomenologia di Husserl c’è la salute; in Heidegger c’è la malattia[4].
Dietro questi richiami alla “malattia” e alla “salute”, è quasi inutile dirlo, si profila anche la figura di Nietzsche. Quanti filosofi italiani, già nei primi anni Sessanta, avevano maturato come de Feo il coraggio di avvicinarsi a questa specie di “pericolo pubblico” senza farsi paralizzare dal pregiudizio? Pochi. E, aggiungerei, quasi nessuno era arrivato prima di lui a pubblicare uno studio monografico totalmente libero dal timore della “contaminazione”, per l’uso che il nazismo aveva fatto dell’autore dello Zaratustra.
De Feo pubblica nel 1965 il suo libro interamente dedicato a Nietzsche, dopo averlo studiato ampiamente anche nel volume precedente[5]. Il Nietzsche di Deleuze, pietra miliare della denazificazione definitiva del filosofo, è del 1962, e in Italia sarà tradotto soltanto sedici anni dopo. L’edizione Colli-Montinari delle opere nietzschiane comincerà ad uscire solo nel 1967. De Feo, due anni prima, neppure si attarda sul problema dell’uso nazista di Nietzsche, né pensa sia necessario dedicare troppi sforzi a liberarlo dalle grinfie del pensiero conservatore. La sua lettura mira direttamente a riconoscere quella che chiama “la posizione eversiva del pensiero nietzschiano”.
C’è, in questo suo primo approccio, un gioco di consonanze, schietto, quasi gioioso, tra l’epoché husserliana e il rovesciamento nietzschiano dei valori. La ricongiunzione fra l’uomo e la sua condizione mondana passa attraverso una scienza nuova, una gaia scienza che scaturisce da questo rovesciamento. È una “funzione umana” della scienza che così si delinea attraverso la nietzschiana “coscienza prospettica”: una possibilità, ma anche un desiderio, di riconquistare un rapporto etico fra vita e conoscenza del mondo, che dissolva la disperazione, la “dolorosità del finito”, dopo averla attraversata, senza occultarla.
Negli anni seguenti, de Feo tornerà ripetutamente su Nietzsche: il suo sguardo si farà forse più critico, poi di nuovo più aperto e, comunque, mai liquidatorio. Anzi, negli anni Ottanta, con noncuranza quasi sfrontata dei bizantinismi esegetici, chiamerà Nietzsche a comparire insieme a Marx fra i responsabili del “movimento reale che distrugge lo stato di cose presente”, esprimendosi in questo modo: “la critica anticristiana, antiborghese, antisocialdemocratica di Nietzsche è già questo movimento, che distrugge e libera nello stesso tempo”. Ma, beninteso, se de Feo si esprimerà in questo modo, è perché sarà uno dei pochi a riscoprire e valorizzare, dopo circa un secolo, l’esistenza di forme diffuse di “anarchismo” e di “socialismo nietzschiano” fra i militanti più o meno rivoluzionari della Germania bismarckiano-guglielmina, e persino di inchieste sulla “valutazione operaia dell’opera nietzschiana”, condotte da qualcuno di questi militanti (Adolf Lewenstein)[6].
Può darsi che quello di de Feo, in fondo, sia stato davvero un “nietzschianesimo senza riserve” come sostiene Nigro. Ciò che è certo, però, è che - come notò Antimo Negri leggendo attentamente il suo libro del 1965 – già negli anni Sessanta il lavoro del filosofo barlettano creava “la possibilità di un interessante accostamento Nietzsche‑Marx, uniti, invero, nonostante ogni distanza speculativa, nell’impegnare la filosofia in un ruolo rivoluzionario”[7].
Sì, in effetti, sintetizzando un po’ i termini della situazione in cui si trovava de Feo, possiamo dire questo: nel 1965 era iscritto al Partito comunista già da qualche anno. Ma non aveva affatto una doppia vita. Diciamo piuttosto che da quella militanza, rapidamente divenuta molto intensa, verrà man mano l’impulso a porre “tra parentesi” la fenomenologia husserliana e la stessa analitica esistenziale heideggeriana, senza mai smettere però di interessarsi soprattutto a questa e di tornarci con approccio diverso. In un certo senso, de Feo sentirà, nel volgere di qualche anno, l’esigenza di una sorta di epoché dell’epoché, di una sospensione della sospensione fenomenologica, recuperando pienamente la dimensione storico-sociale della crisi del rapporto con il mondo dell’uomo contemporaneo. In ogni caso, già dal 1965, quando pubblica il primo saggio su Weber, partono i primi passi di una linea di ricerca sempre più orientata a una storicizzazione sociale, politica ed economica di questa crisi, linea che passerà sempre attraverso Marx e si soffermerà soprattutto su Weber, appunto, e su Lukács.
A tal proposito, è il caso di toccare una questione rispetto alla quale questi autori sembrano vivere delle esperienze emblematiche per de Feo. Ma, in realtà, si tratta di una questione generale che riguarda sostanzialmente tutti gli autori già citati, insieme ad altri: il problema del rapporto fra coscienza intellettuale e trasformazione sociale o, se si preferisce, fra ragione e prassi.
Consideriamo in primo luogo Weber. Se il problema della conoscenza del mondo e della ragione, per forza di cose, è fondamentale nel momento fenomenologico di de Feo, è chiaro che con Weber non potrà non mantenere questa centralità, mutando però man mano i suoi termini e i suoi contenuti. Weber inizialmente è posto ancora a confronto con la prospettiva husserliana, ma diverrà poi una sorta di sentiero destinato ad allargarsi progressivamente, fino a diventare per de Feo una strada maestra della comprensione dell’ultimo secolo di storia politico-sociale.
Un motivo ricorrente di questo percorso sarà l’insistenza sulla “disperazione” di Weber nel vedere contraddetta ogni volta la possibilità dell’analisi “oggettiva” dei rapporti sociali e nel registrare continuamente gli effetti perversi dell’incedere della razionalità moderna o, che è lo stesso per Weber, del capitalismo, che pure egli non sa concepire se non come necessario e inarrestabile: il “politeismo dei valori” che risorgono dai loro sepolcri; l’“irrazionalità materiale” e la lotta di classe che sempre ritornano. Sono questi i motivi della disperazione patologica del Weber di de Feo, un Weber che non sa risolversi per una visione più ricca della ragione moderna, capace di accettare la fecondità dei propri fallimenti[8].
Ma ancora più significativo a questo riguardo è il caso di Lukács. A me sembra che, per un periodo breve ma intensissimo, per de Feo il filosofo ungherese costituisca una sorta di alter ego con cui fare i conti senza fare sconti. De Feo apprezza la scelta di Lukács di aderire al Movimento Operaio, che da intellettuale di tutt’altra provenienza ha saputo compiere; ne denuncia e ne rifiuta però l’indisponibilità a dissolvere la cesura gerarchica fra coscienza intellettuale e prassi politica. Questo persistente distacco fra i due momenti produce, secondo de Feo, in primo luogo la definizione della scelta di classe essenzialmente come risultato di un’elaborazione e di una maturazione filosofico-morale; in secondo luogo, esso induce Lukács a fare della coscienza, nella sua versione classista, il fondamento stesso della prassi politica; inoltre, esso è causa dell’incapacità lukácsiana di rinunciare ad una filosofia astratta e totalizzante della storia, radicata in un pervicace attaccamento alla dialettica hegeliana.
Perciò, Lukács non maturerebbe mai effettivamente un’attitudine a indagare nella loro specificità politica le trasformazioni, le contraddizioni sociali, i rapporti di forza. E diverrebbe una sorta di interprete esemplare, per quanto filosoficamente attrezzato, della propensione del comunismo storico a rivestire ideologicamente prima la radicalità della rivoluzione, poi la degenerazione staliniana del socialismo e infine la stessa esigenza della destalinizzazione, che rimarrà per questo priva di incisività[9].
Queste implicazioni della critica rivolta a Lukács, ci fanno capire che il problema che de Feo fa emergere attraverso l’analisi del ruolo degli intellettuali e del rapporto fra ragione e prassi ha una dimensione enorme. Questa analisi lo porta di fatto a rilevare la miseria complessiva della cultura politica del socialismo reale e del Movimento Operaio organizzato: ormai, essi sono capaci di mantenere la loro compattezza più con il proprio arroccamento che con la comprensione e il contrasto effettivo delle nuove tendenze del neocapitalismo del dopoguerra.
De Feo ne è talmente consapevole che, già nel 1969, si interessa persino della rivoluzione cibernetica, almeno con un decennio di anticipo sull’informatizzazione della società. Scopre che c’è chi se ne occupa nei paesi socialisti (George Klaus), e cerca di capire se essa possa servire a rivitalizzare il socialismo reale: sembra immaginare quasi una forma post‑fordista di società socialista che giochi d’anticipo sul capitalismo. Ma nello stesso tempo, percepisce che non è convertendo il materialismo dialettico in materialismo cibernetico che sarà garantito il successo della rivoluzione[10].
Quando nel 1971 denuncerà l’incapacità di Lukács di concepire il confronto fra socialismo e capitalismo se non nei termini della coesistenza pacifica e della competizione economica fra due modelli, di fatto registrerà la riduzione definitiva della politica ufficiale del Movimento operaio a semplice variante interna ad una medesima prospettiva miracolistica dello sviluppo per lo sviluppo, della quale peraltro il capitalismo tiene saldamente le redini.
Questo è anche uno dei momenti più critici e significativi del percorso di de Feo. Passando dal livello della riflessione teorica a quello della militanza e dell’esperienza immediata, si può dire che questi esiti del suo lavoro si intreccino, tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, con una serie di fatti intrascurabili fra i quali spiccano, innanzitutto, i fermenti che sfociano nel Sessantotto studentesco e nel Sessantanove operaio. Questi eventi rendono acuta per de Feo la difficoltà di continuare a considerare il Partito Comunista come il filtro attraverso il quale i cambiamenti e i movimenti sociali possono trovare la loro interpretazione più adeguata. Inoltre, il fatto che una soggettività politica profondamente innovativa venga alla luce proprio nell’università, lo spinge a riflettere sul ruolo di docente, che proprio in quegli anni gli si prospetta, e a concepirlo come una sorta di breccia attraverso la quale le istanze dei movimenti devono trovare un varco per affermarsi. Ma, in questo contesto, la messa in discussione del legame con il Partito Comunista è molto più sofferta di quanto si possa pensare a posteriori e, comunque, va ben oltre il terreno della riflessione teorica.
Nell’ambito dell’organizzazione, de Feo non si riserva semplicemente lo spazio nel quale si accetta tacitamente che gli intellettuali si accomodino, garantendo solo il loro brillante contributo alle riviste e alle collane marxologiche (cosa che, peraltro, egli fa con grande padronanza). Nel 1969 Nicola accetta di rappresentare il PCI nel Consiglio di amministrazione dell’Ospedale di Barletta, in un momento in cui vengono compiuti i primi tentativi di rafforzamento del sistema sanitario pubblico. Il partito forse immagina che de Feo si limiterà a concepire il suo compito come un piccolo contributo alla lunga marcia di legittimazione istituzionale della sinistra comunista. Ma le cose andranno molto diversamente.
Nicola scoperchia la pentola di un andazzo amministrativo inaccettabile che fa conoscere alla giustizia penale e all’opinione pubblica. Ne deriva un procedimento giudiziario per vari reati di corruzione, che avrà grande risonanza. Solo dopo anni e dopo un paio di livelli processuali, il Direttore amministrativo di quell’ospedale riuscirà ad ottenere l’assoluzione, mobilitando i più quotati “principi del foro”. De Feo si spiegherà quell’esito non solo con la potenza politica del personaggio (molto legato alla Democrazia cristiana), ma anche con l’atteggiamento del proprio partito che un giornalista dell’epoca, tutt’altro che di estrema sinistra, accusa di fare “la politica dello struzzo”, lasciando da solo de Feo[11].
Comunque sia, l’iniziativa di Nicola non è il frutto di una vocazione giustizialista. Piuttosto è il suo Partito a venir meno al proprio compito di legittimarla e trasferirla interamente sul terreno politico della difesa di un bene comune come il sistema sanitario. E che si tratti di un’occasione politica sprecata è dimostrato dal fatto che de Feo, pur non avendo l’appoggio dell’apparato, viene eletto a furor di popolo consigliere comunale. Ma intanto le domande radicali che deve porsi alla luce di quella vicenda, lo portano a vedere lucidamente che molte delle figure di militanti e dirigenti che avevano saputo legittimare e organizzare le lotte degli anni Cinquanta contro la polizia di Tambroni, si sono trasformate in una nomenklatura grigia e autoritaria, spesso desiderosa solo di mettere a frutto le credenziali acquisite.
Insomma, la rottura con il PCI è presto consumata. De Feo passa qualche tempo, come indipendente di sinistra, a tenere in scacco da solo il consiglio comunale della sua città, facendo le pulci ad ogni atto amministrativo, anche dopo la nascita di una giunta di sinistra con sindaco comunista. E infine si dimette e lascia la politica istituzionale.
Siamo nei primi anni Settanta. L’impegno politico di de Feo, dopo varie esplorazioni e tentativi in diverse direzioni (Potere Operaio, Gruppo del Manifesto, Partito di Unità Proletaria), finirà per identificarsi sempre più con la promozione dell’intelligenza critico-politica degli studenti che seguiranno numerosissimi le sue lezioni e ne trarranno spesso lo stimolo a fare dell’università un luogo di liberazione sociale, nel clima del dopo-Sessantotto.
D’altra parte, la produzione filosofica di de Feo, a metà degli anni Settanta, quando ha solo trentasei anni, è ormai ricchissima: un libro sull’“Ontologia fondamentale”, uno su Nietzsche, uno su “Prassi e scienza sociale”, due su Weber, uno su Weber e Lukàcs, la traduzione e la cura di un’opera di Heidegger, per non parlare di tutto il resto[12]. La comunità universitaria nazionale lo conosce e lo apprezza da tempo. Non a caso gli ha già concesso, a trent’anni, la libera docenza in Filosofia Morale. Ma ormai ha capito pure che si tratta di un tipo indocile e irriducibile alle strategie accademiche degli schieramenti culturalmente egemoni. Infatti, malgrado de Feo si sottoponga ripetutamente alle prove concorsuali, non si vedrà mai riconosciuta la sua indiscussa idoneità a divenire docente ordinario.
Ma cosa accade, più precisamente, sul piano della sua ricerca? Gli anni Settanta costituiscono un momento di ripensamento, da cima a fondo, degli schemi teorico-politici cui de Feo si è riferito negli anni precedenti. Da questo ripensamento provengono tutte le linee del lavoro che svolgerà lungo gli ultimi venticinque anni della sua vita.
Fra le coordinate essenziali di questo percorso c’è innanzitutto la combinazione fra due elementi: la valorizzazione del Marx dei Grundrisse (i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica) e l’approfondimento del neomarxismo operaista italiano, a partire dai testi dei “Quaderni rossi” - specie quelli di Raniero Panzieri - per arrivare alla ricerca in corso, in particolare quella che Toni Negri svolge dagli anni Settanta in poi. Si tratta di riferimenti che non verranno mai meno e resteranno, esplicitamente o implicitamente, fondamentali fino agli ultimi studi di de Feo.
Quali sono i problemi ai quali egli rivolge maggiormente il suo interesse a partire da questi riferimenti? Innanzitutto quello delle forme del comando che il capitalismo maturo esercita sul lavoro sociale (forme della razionalità tecnica, del denaro come capitale, del potere dello Stato); in secondo luogo quello della composizione sociale, tecnica e politica della classe operaia e delle nuove forze produttive.
Gli stimoli immediati in queste direzioni gli arrivano dalle nuove espressioni del conflitto fra lavoro e capitale, dalle nuove forme di ribellione contro la stessa centralità sociale e politica del lavoro, che si esprimono man mano attraverso le nuove figure produttive, i nuovi comportamenti dell’operaio della fabbrica fordista, degli studenti della scuola di massa, delle aggregazioni sempre più consistenti dei lavoratori precari, flessibili, dell’“operaio sociale” della fabbrica diffusa; insomma, da un insieme di questioni che emergono nell’arco di tempo che va dal Sessantotto al Settantasette e si evolvono lungo i decenni successivi.
Le figure e i comportamenti che sostanziano tali questioni sono, evidentemente, inassimilabili a quelli che hanno caratterizzato storicamente la base sociale delle grandi organizzazioni del Movimento Operaio. In particolare, l’operaio professionale, fiero della sua insostituibilità produttiva e del proprio ruolo di avanguardia politica, è ormai un ricordo lontano. Ma i modi “professionali”, centralistici, statocentrici di concepire l’azione politica restano ancora indiscussi nelle strategie politiche prevalenti nella sinistra.
Per de Feo sono proprio queste le maniere meno adeguate di rapportarsi alle nuove esigenze che scaturiscono dal grande cambiamento in atto. Perciò, ad esempio, per lui non può avere una reale efficacia l’accesso del Partito Comunista Italiano all’area di governo, in tempi di crisi incalzante, con l’intento di rilanciare lo sviluppo economico, guidandolo politicamente e scambiando la moderazione dei costi del lavoro con l’improbabile riduzione degli appetiti del capitale e del ceto politico dominante. Al di là di altre considerazioni, si tratta con tutta evidenza di una prospettiva che non fa i conti né con la nuova composizione né con i nuovi bisogni delle forze sociali, né con la proiezione del capitalismo verso la ristrutturazione produttiva, la rivoluzione informatica, la mondializzazione del capitale finanziario, che già alla fine degli anni Settanta si profilano chiaramente.
È su questi temi che la riflessione di de Feo fa interagire l’analisi marxiana del sistema delle macchine, del general intellect e del denaro come capitale con l’indagine in presa diretta del neomarxismo italiano sul passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale.
Ma come si esprime nel lavoro di de Feo questo intreccio di questioni? Bisogna dire che esse emergono esplicitamente soprattutto nelle sue lezioni universitarie. Nell’ambito della ricerca, invece, esse restano talvolta sullo sfondo o, meglio, si esprimono soprattutto attraverso la mediazione di un percorso di approfondimento storico, politico e filosofico estremamente denso e originale. Si tratta dell’enorme lavoro che de Feo svolgerà pressoché ininterrottamente fino ai primi anni Novanta e oltre, assumendo prevalentemente come terreno di studio la storia della Germania contemporanea.
Il risultato maggiore di questo lavoro saranno le quasi mille pagine complessive dei due volumi pubblicati nel 1992: Riformismo, Razionalizzazione, Autonomia operaia e L’autonomia del negativo fra rivoluzione politica e rivoluzione sociale. Ma se si confrontano questi libri con il testo di un suo Seminario pubblicato nel 1977 (Autonomia operaia e militarizzazione dello Stato, dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich), si può vedere che in quel momento il programma delle ricerche dei decenni successivi è già pressoché interamente tracciato. Non solo, ma nel 1979 de Feo consegna ad un noto editore barese un grosso volume con un titolo del tutto simile a quello del primo dei due libri del 1992, che però non sarà mai pubblicato, probabilmente perché ritenuto politicamente indigesto. De Feo deciderà poi di continuare a lavorarci, facendo innumerevoli viaggi in Germania e, alla fine, quel volume si sarà arricchito, ampliato e raddoppiato.
Tutto questo percorso di ricerca consiste soprattutto in due indirizzi che si intersecheranno continuamente fra loro. Il primo è quello riguardante i temi della razionalizzazione tecnico-scientifica, della pianificazione economica e della Sozialpolitik che sono già emersi soprattutto nei suoi libri su Weber. Il secondo è, invece, quello dell’indagine sulle varie espressioni storiche dell’altro movimento operaio, in cui de Feo dispiegherà soprattutto il ventaglio delle espressioni, delle figure e delle posizioni del comunismo anarchico.
A caratterizzare sul piano filosofico-politico la dimensione antagonistica in cui si incrociano i fenomeni relativi a questi due indirizzi interverrà prepotentemente la tematica da lui indicata con l’espressione “autonomia del negativo”. E in proposito egli convocherà come testimoni le figure più inquiete della filosofia e della cultura contemporanea, riprendendo in particolare il confronto con alcune sue vecchie conoscenze come Nietzsche e Heidegger.
Primo risultato fondamentale di questo percorso è la rinuncia definitiva a considerare la pianificazione razionale, la gestione politica e la socializzazione dell’economia come strumenti decisivi della realizzazione del socialismo e del comunismo. Il Movimento Operaio, proponendo storicamente queste strategie come espressioni di una razionalità socio-economica superiore a quella del capitalismo, di fatto ha reso disponibili per il ceto politico borghese degli strumenti di attenuazione delle contraddizioni politiche e di gestione delle crisi economiche del capitalismo.
Secondo de Feo, infatti, la storia delle strategie di piano e di razionalizzazione sociale dell’economia mostra che esse sono state ben presto integrate dalle forme di controllo politico che la borghesia riformista e l’interventismo statale hanno cominciato a mettere in campo almeno dai tempi di Bismarck. Nella Germania guglielmina e poi anche in quella della repubblica di Weimar, questa capacità e questa volontà di riassorbimento da parte della borghesia emergono soprattutto attraverso l’elaborazione teorica dei protagonisti della ricerca sociologica, come Weber e Sombart, e della loro “Associazione per la politica sociale” (“Verein für Sozialpolitik”)[13].
Ma, più in generale - secondo de Feo -, la Sozialpolitik, lo Stato-piano, lo Stato nazi-fascista, il Welfare state, lo stesso socialismo reale, in definitiva, non sono che espressioni diverse, dirette o indirette, della stessa razionalità economica e della stessa volontà di controllo, il cui risultato è sempre la vanificazione delle possibilità di liberazione della società dal dominio capitalistico. Perciò, per de Feo, la prospettiva entro la quale occorre pensare la rivoluzione sociale, non è più quella della realizzazione futura e sempre rinviata di tutte le potenzialità produttive del lavoro mediante l’organizzazione razionale e la direzione politica della produzione verso la sua massima socializzazione; ciò che non può più essere sacrificato a questa prospettiva è, piuttosto, la liberazione politica della forza produttiva attuale, il suo riscatto dalla razionalità economica e dall’etica del lavoro, la liberazione immediata dei bisogni radicali dell’individuo e della società, partendo da quelli di un proletariato in via di costante socializzazione antagonistica rispetto al capitalismo.
Certo, si potrebbe ritenere che una simile prospettiva sia tanto sconvolgente quanto astratta. Ma questa può anche essere una comoda conclusione, specie se si trascura un altro risultato imprescindibile del lavoro di de Feo, ovvero il fatto che – secondo lui – un gran numero di movimenti politici e di figure sociali hanno già provato storicamente a percorrere questa strada, pagando indubbiamente un prezzo altissimo, ma mostrando pure l’ineludibilità delle loro “domande”.
È quanto emerge, in particolare, dall’altro indirizzo essenziale delle ricerche degli ultimi decenni, quello riguardante appunto la storia dell’altro movimento operaio.
Si tratta di una linea di ricerca, avviata da de Feo già a metà degli anni Settanta dopo la lettura degli studi dello storico militante tedesco Karl Heinz Roth, che produce il suo esito più consistente nel 1992[14]. Ma de Feo continuerà i suoi ulteriori approfondimenti di questo lavoro fino alla sua morte, senza riuscire però a realizzare il progetto che ne era emerso: la pubblicazione di un libro su Karl Plättner, militante tedesco da lui definito “un gigante della rivoluzione”[15].
Quali sono le figure sociali di questo “altro movimento”? Esse sono quasi sempre quelle del proletariato più mobile, più marginale, più sfruttato, meno tutelato dalle politiche sociali dello Stato. Il loro rapporto con il lavoro e i loro comportamenti sfuggono ai modelli etico-politici tipici dell’operaio professionale che rappresenta la figura di riferimento principale della socialdemocrazia nella Germania prenazista. Si tratta di figure che, secondo de Feo, non rifiutano soltanto il fatto di contribuire alla produzione di una ricchezza crescente di cui si appropria il capitale, ma anche il fatto di dover far passare attraverso il lavoro duro e precario la possibilità di una sopravvivenza, per lo più miserabile, e di una soddisfazione parziale e distorta dei propri bisogni. In altre parole, queste figure pongono più o meno direttamente in questione non soltanto i rapporti di produzione capitalistici, ma la stessa forma lavoro come condizione imprescindibile del godimento individuale e comune della ricchezza sociale. Nella misura in cui la produzione di ricchezza manifesta qui ed ora le sue potenzialità di sviluppo e le sue possibilità di riduzione del lavoro necessario, essa è già condizione della liberazione dei bisogni che, viceversa, continua ad essere frustrata dall’imperativo del lavoro e dalle sue espressioni spesso disumane.
Sono di questo tipo le ragioni per cui, secondo de Feo, le istanze di queste figure storicamente vengono interpretate soprattutto dal comunismo anarchico, traducendosi spesso in pratiche che tendono all’azione diretta, al sabotaggio, alla rivolta immediata, contrapponendosi di fatto alla prospettiva di rinviare all’infinito la soddisfazione piena dei bisogni sociali. Non c’è dubbio, quindi, che le forme di lotta corrispondenti siano per lo più radicali e spesso violente. Tuttavia, la maniera più sterile di discutere questo dato è accontentarsi di usare la lotta violenta semplicemente come un criterio distintivo fra cattivi e buoni rivoluzionari. Ciò che piuttosto occorre cogliere – secondo de Feo - è anche un altro elemento intrascurabile, vale a dire che queste lotte non hanno mai soltanto un carattere soggettivo; esse sono anche espressione oggettiva del fatto che nella nostra società non c’è modo di sfuggire a ciò che egli chiama “l’autonomia del negativo”.
Proprio il fatto che la razionalità economica, lo sfruttamento del lavoro, la pianificazione del dominio continuano a presentarsi e a riprodursi come inaggirabili è il fattore scatenante dell’esplosione – ricorrente e ineluttabile, soggettiva e oggettiva, personale e impersonale, individuale e collettiva – della disperazione e della rivolta, della sovversione e della liberazione. In questo carattere ambivalente, in questa oscillazione fra modi diversi dell’autonomia del negativo, de Feo ci invita a cogliere anche il fatto che l’impulso basilare di tale autonomia non è, non può essere, negativo in assoluto; la “negazione” in cui essa consiste sta innanzitutto nel desiderio di liberare i bisogni, nel bisogno di sprigionare le energie più creative e le pulsioni più gioiose: essa è negazione non tanto perché può essere eventualmente distruttiva, ma innanzitutto perché scuote e, appunto, nega l’imperativo economico e il dominio politico.
Ma il senso dell’ambivalenza dell’autonomia del negativo – secondo de Feo – consiste anche in un dato elementare, ovvero nel fatto che essa si esprime in forme di rivolta sia violente che non violente come la resistenza passiva, lo sciopero della fame o la rivendicazione della libertà sessuale. Perciò, in definitiva, attraverso l’autonomia del negativo de Feo non fa che registrare l’incoercibile varietà di forme in cui sempre si esprimono la sovversione e la liberazione.
Insomma, è l’idea che la tragedia della rivolta o la gioia della liberazione possano esprimersi secondo modelli pre-codificati o sotto la direzione di qualcuno che il lavoro di de Feo dissolve. Perciò, né lui né chiunque altro potrebbe pensare di esercitare un controllo o una guida, teorica o pratica, su questa varietà. Ma, secondo de Feo, è anche del tutto evidente che la disperazione in cui la razionalità economica e il dominio politico gettano continuamente l’impulso affermativo della liberazione può rovesciarlo in pura negazione e nella sua stessa disumanizzazione. È quanto accade nel caso, tutt’altro che raro, dei rivoluzionari che radicalizzano il loro anelito sovversivo fino a farne una missione e una professione, venendo travolti dallo stesso autonomizzarsi della logica che innescano. È il caso, in particolare, delle figure “demoniache” e “nichiliste” degli anarchici russi di cui parla Dostoevskij, in cui “il ‘demoniaco’ – come scrive de Feo – esprime questo sfuggire di mano dell’azione sovversiva, che si autonomizza dai soggetti che la pongono in essere, trascinandoli e rovinandoli nel suo corso di distruzione, che assume i caratteri dell’inevitabilità e dell’impersonalità”[16]. Paradossalmente, è proprio in questa “impersonalità” e in questa “inevitabilità” che si può cogliere il carattere di evento che il negativo tende ad assumere. Esso, in altre parole, si dà sempre come necessario e al tempo stesso come imprevedibile all’interno degli schemi dominanti della razionalità tecnica, della calcolabilità economica o della pianificazione politica.
È a tale riguardo che emerge tutto lo spessore filosofico di questo tema. De Feo, infatti, lo elabora soprattutto riprendendo e approfondendo il confronto con la “filosofia negativa” di Nietzsche e di Heidegger, ai quali affianca altri numerosi testimoni della negatività che scaturisce continuamente dal sottosuolo della razionalità dominante: Dostoevskij con i suoi “demoni”, appunto; ma anche Bataille con la sua dépense e la sua “parte maledetta”, Foucault con i suoi folli e i suoi corpi indocili, Baudrillard con il suo scambio simbolico, e altri ancora.
Qui mi limiterò a considerare soltanto i due casi principali. A proposito di Nietzche, ricorderò in particolare che per de Feo l’autonomia del negativo può essere definita anche come “l’eterno ritorno della dissoluzione e della riappropriazione dionisiaca”[17]. Quanto ad Heidegger, invece, ricorderò che è nel carattere eventuale da lui attribuito all’essere che de Feo ritrova le tracce del negativo come “liberazione del poter essere” e come “negazione dell’essere-presente come potere, come sistema, come dottrina”[18].
Ma non terminerò il mio discorso senza aver fatto un’ultima notazione assolutamente necessaria. L’ambivalenza e la distruttività dell’autonomia del negativo – secondo de Feo – non segnano soltanto l’antagonismo sociale, ma permeano interamente e in primo luogo lo sviluppo del capitalismo. In tal senso, in un suo saggio del 1995 sulla corruzione, egli descrive le forme del capitalismo postmoderno in cui viviamo e l’estrema potenza dissolutiva che ha ormai assunto il denaro in quanto capitale finanziario mondializzato. In questo capitalismo, gli aspetti più innovativi e razionali della tecnologia più avanzata, della comunicazione e dell’informatizzazione più sofisticata, dell’automazione delle produzioni più complesse, convivono – per così dire – senza soluzione di continuità con la distruzione della solidarietà sociale, l’abbrutimento estremo del lavoro, l’avvilimento inarrestabile dei paesi poveri, gli investimenti nelle industrie più devastanti, il degrado dell’ambiente, l’incoraggiamento della speculazione più sfrenata, l’avvento al potere di ceti politici intimamente permeati dalla vocazione alla corruzione.
Aggiungerò, da parte mia, solo un’osservazione. Se c’è un modo elementare per cominciare a liberare la nostra società dalle sue inclinazioni distruttive, questo consiste nel non chiudere gli occhi, e neppure le orecchie, né di fronte alla rivolta incendiaria delle banlieues contro la marginalizzazione di massa né davanti alla resistenza passiva degli abitanti della Val di Susa contro l’euro-tecnocrazia. Si tratta di vedere lucidamente che se questi movimenti fanno evento, non è solo per le forme inaspettate che assumono, ma soprattutto perché sfuggono a una razionalità politico-economica troppo facilmente accettata come inaggirabile, a destra e a manca.
[1] N.M. de Feo, Ragione e rivolta. Saggi e interventi – 1962-2002, a cura di O. Marzocca, prefazione di T. Negri, Mimesis, Milano 2005.
[2] G. Tarantino, M. Grasso Tarantino, 8 settembre 1943. L’armistizio a Barletta, con interventi di M. Pirani e G. Schreiber, Editrice Rotas, Barletta 2004.
[3] I fatti di Barletta del 14 marzo 1956 furono oggetto di un’inchiesta svolta da 22 deputati e senatori socialisti e comunisti, e occuparono le cronache di vari quotidiani nei giorni immediatamente successivi (“L’Avanti”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Il Messaggero”, “L’Unità”); un ampio resoconto degli avvenimenti venne pubblicato su “L’Espresso” del 25 aprile 1956. Recentemente una documentata ricostruzione è stata presentata in R. Mascolo, Teodoro Giannone – 1876-1967. Antifascismo e impegno politico a Barletta, Ricerche della Biblioteca, Barletta 2004, pp. 108-118.
[4] N.M. de Feo, Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. L’ontologia fondamentale, Silva, Milano 1964, pp. 174-175.
[5] Il riferimento è a N.M. de Feo, Analitica e dialettica in Nietzsche, Adriatica, Bari 1965 e al già richiamato Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. L’ontologia fondamentale, cit.. Altri testi nietzschiani di de Feo possono essere rintracciati attraverso la bibliografia finale di questo volume e in Id., Ragione e rivolta, cit.
[6] N.M. de Feo, Nietzsche e il comunismo, in G. Penzo (a cura di), Friedrich Nietzsche o la verità come problema, Pàtron, Bologna 1984, pp. 29 e 31, ora anche in N.M. de Feo, Ragione e rivolta, cit., pp. 271 e 273 (ma si veda pure la versione lievemente diversa in Id., L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, Lacaita, Manduria‑Bari‑Roma 1992, pp. 365 e 368).
[7] A, Negri, recensione a Nicola M. de Feo, Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. L’ontologia fondamentale, Silva, Milano 1964, e Id., Analitica e dialettica in Nietzsche, Adriatica, Bari 1965, in “Giornale critico della Filosofia italiana”, 1968, vol. I, p. 156.
[8] I testi principali su Weber pubblicati da N. M. de Feo sono: Weber e Lukács, De Donato, Bari 1971; Introduzione a Weber, Laterza, Bari 1970, 19952; Max Weber, La Nuova Italia, Firenze 1975. Ma si vedano, oltre i saggi weberiani compresi in Id., Ragione e rivolta, cit., anche Id., Riformismo, razionalizzazione, autonomia operaia. Il Verein für Sozialpolitik – 1872‑1933, Lacaita, Manduria‑Bari‑Roma 1992 e Id., La ragione sovversiva. Appropriazione e irrazionalismo in Weber, Sombart, Marx, Edizioni B.A. Graphis, Bari 2000.
[9] De Feo approfondisce il pensiero del filosofo ungherese soprattutto in Weber e Lukács, cit.. Altri testi importanti sullo stesso autore sono: Analisi della merce e teoria del partito in Lukács, “Problemi del socialismo”, n. 5-6, 1971, pp. 879‑893, e Scelta di classe e umanismo in György Lukács, “Critica storica”, n. 3, 1972, pp. 483‑496. Entrambi i testi sono ora compresi in Ragione e rivolta, cit..
[10] Cfr. N.M. de Feo, Cibernetica e dialettica sociale nella rivoluzione scientifico‑tecnologica, “Critica marxista”, n. 4-5, 1969, pp. 76‑96.
[11] I. Scarpa, Anche il PCI sull’ospedale fa la politica dello struzzo, “Il Tempo”, 8 marzo 1969, cronache locali, p. 4.
[12] Si veda la bibliografia posta in appendice a questo volume.
[13] In proposito cfr. N. M. de Feo, Riformismo, razionalizzazione, autonomia operaia, cit.; si veda, inoltre, Id., La ragione sovversiva, cit.
[14] N.M. de Feo, L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, Lacaita, Manduria‑Bari‑Roma 1992.
[15] N. M. de Feo, Karl Plättner, il ribelle senza pace, “Posse”, n. 2, 2002, pp. 118-122.
[16] N.M. de Feo, L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, cit., p. 234.
[17] Ivi, p. 337.
[18] N.M. de Feo, Il sacro e il potere in Heidegger, introduzione a M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. XXXII, ora anche in N.M. de Feo, Ragione e rivolta, cit., p. 302.