Nicola Massimo de Feo, 25/03/2020
Materiale datato: 01/01/1969
Presenza di Max Weber (1969) è il saggio in cui N. M. de Feo rifletteva sui problemi e sui significati della controversa eredità del sociologo e teorico della razionalità monopolistica Max Weber nella sociologia degli anni ’50 e ’60, all’interno del contesto storico-culturale della Max Weber-Renaissance.
Centrali sono le tematiche della metodologia dell’analisi sociale e della concezione della storia weberiane, e il loro rapporto con il materialismo storico-dialettico di Lukács e Marcuse, che de Feo ha esaminato alla luce degli studi di F. Ferrarotti, L. Cavalli e G. Abramowski.
Quali sono i significati, i problemi, le prospettive della presenza di Max Weber nella attuale cultura sociologica, oggi? Una iniziale, seppure provvisoria risposta alla domanda non può non tenere conto e muovere dalla contingenza specifica della situazione storica generale che caratterizza l’attuale sviluppo delle scienze dell’epistemologia sociale, oggi, quando la borghesia capitalistica si trova ad un punto critico della fase di concentrazione e pianificazione della produzione monopolistica e dello sviluppo sociale europeo-occidentale contemporaneo. Quella direzione dell’esistenza che John Kenneth Galbraith ha visto determinata da ciò che egli chiama gli “imperativi della tecnologia”, che coincide, press’a poco, con quella “pianificazione dell’esistenza totale” che Karl Jaspers ha visto come propria dell’economia marxista, e altro non è che quella ultima fase di sviluppo della società borghese che Lenin ha definito “capitalismo monopolistico di Stato”, ha posto sempre più fortemente alla coscienza ideologica borghese il problema della interpretazione e del senso scientifico-filosofico dei processi di razionalizzazione dell’economia capitalistica. La necessità di creare stimoli e sistemi ideologici rinnovati, conformemente al progressivo rinnovamento pianificato della struttura capitalistica, mette in moto il complesso meccanismo di riflessi, di reazioni e di invenzioni, che presiede e genera le rinnovate sovrastrutture ideologiche. Se, infatti, le “filosofie dell’esistenza” continuano a riflettere, in modo più o meno attivo o mistificato, nell’ambito formalmente neutrale della speculazione emozionale, l’oggettiva condizione di incertezza, l’insecuritas costitutiva dell’esistenza borghese, le scienze sociali, e in modo specifico la sociologia, cercano di uscire dall’impasse prodotto dalla stagnazione degli ultimi decenni, a seguito dello sviluppo incontrastato e istituzionalizzato delle tendenze empiristiche, formalistiche e accademiche del sociologismo nordamericano[1], risuscitando ancora una volta lo spettro tormentato di Max Weber, il suo razionalismo analitico, la sua ideologia borghese. All’esplosione, necessariamente antiborghese e anticapitalista, della coscienza dialettica, in diversa misura contestatrice del dato, che attraverso Lukács, Bloch, Marcuse, Adorno, ecc., prospetta una nuova Weg zur, profondamente legata alla rivoluzione sociale, la cultura borghese contrappone l’alternativa, necessariamente repressiva e antitetica alla nuova coscienza dialettica, di un ritorno a Max Weber, una rinascita ideologica del pensiero analitico, un nuovo più controllato razionalismo, tra strutturalismo e metodologia, che rappresenti, nell’ambito della filosofia ed epistemologia scientifica, la mediazione culturale e ideologica del progresso tecnologico, dell’efficienza e della redditività dei monopoli. Come teorico della razionalità monopolistica, della sua idealtipica coerenza teorica e pratica, delle sue contraddizioni sociali, Max Weber sembra il sociologo borghese più adatto su cui e per cui la borghesia intellettuale contemporanea porta innanzi il discorso epistemologico e scientifico sulla necessità e insuperabilità storico-sociale della direzione capitalistica della pianificazione sociale. L’attualità di Max Weber, così come si è intitolato il congresso maxweberiano di Heidelberg del ’64, che ha segnato il punto più alto e la spinta maggiore all’attuale Max Weber-Renaissance, ha, pertanto, un significato essenzialmente ideologico di indubbio interesse sociale.
Le scienze sociali borghesi cercano in Max Weber un loro padre e maestro, dopo una pausa di tempo non troppo lunga della tradizione weberiana della sociologia occidentale, che deve essere servita a far dimenticare un troppo simile ruolo, forse più politicamente marcato, assunto dal pensiero weberiano nell’ambito dell’ideologia nazionalsocialista[2]. Questa pausa, d’altra parte, non si è neanche prodotta nello sviluppo della scienza economica e politica tedesca, dal momento che tra il ’45 e ’50, il pensiero economico e politico maxweberiano è già diventato il punto di riferimento obbligato degli ideologi della restaurazione capitalistica tedesca: negli stessi anni in cui Alfred Krupp veniva liberato dalle carceri di Monaco per riprendere possesso del suo impero industriale e gli alleati occidentali liberavano progressivamente la borghesia reazionaria tedesco-occidentale dall’ipoteca della nazificazione, Walter Eucken, Ludwig Erhard, Alfred Müller-Armack ed altri elaboravano, sulle orme del pensiero weberiano, gli elementi teorici e pratici di quel neoliberalismo che doveva costituire la base ideologica e scientifica della rinnovata espansione monopolistica dell’economia tedesco-occidentale[3]. La stessa costituzione della Repubblica federale tedesca, la strategia politico-militare entro cui fu concepita e realizzata la sua esistenza, trovano nel pensiero politico di Weber sorprendenti anticipazioni e giustificazioni sociali e ideologiche[4]: la connessione necessaria tra sviluppo monopolistico del capitalismo e politica imperialistica è il motivo di fondo del pensiero politico-sociale weberiano[5].
I motivi di maggiore attualità sociologica ed epistemologica del pensiero weberiano sono rivelati da Ernst Topisch e Talcott Parsons i quali, sia pure da prospettive alquanto diverse, convengono nell’indicare e sottolineare la connessione del pluralismo prospettico e della neutralità dell’analisi sociale, i criteri di maggiore interesse operativo per il lavoro critico delle scienze sociali. Secondo Topisch che si trova molto vicino ad una interpretazione del pensiero weberiano, in chiave di razionalismo critico, che ritroviamo in René König, Johannes Winckelmann, Eduard Baumgarten, Reihard Bendix, Pietro Rossi, Franco Ferrarotti, il pluralismo analitico weberiano è strettamente connesso al pluralismo funzionalistico delle scienze sociali contemporanee e all’ideale di autonomia critica dell’intellettuale-ricercatore, che è l’ideale di libertà intellettuale su cui la scienza liberata dalle varie forme di naturalismo e metafisica, afferma la sua indipendenza e criticità. Secondo Talcott Parsons, la Wertfreiheit dell’analisi weberiana è il fondamento razionale della nuova oggettività disideologizzata della scienza contemporanea[6]. Le contraddizioni materiali che Weber scorge all’interno della razionalizzazione formale del capitalismo borghese, fanno parte, secondo Parsons, della stabilità stessa del sistema della ragione formale, che vive della tensione e relazione reciproca degli elementi statico-formali, le istituzioni e gli aspetti dinamici dell’azione sociale. Ragione formale e ragione materiale sono allora due aspetti o due momenti reciprocamente connessi tra di loro del “sistema sociale” come tale della moderna società industriale, che ora appare irrigidita nella stabilità e oggettività istituzionale, nella meccanica spietata del calcolo e del profitto, ora invece scossa dalla tensione materiale dei bisogni sociali e storici repressi e sempre in movimento della “azione sociale”[7].
A queste tesi, in realtà non sempre differenziate tra loro, si oppone una terza tendenza, anch’essa variamente differenziata, che va da Georg Lukács a Herbert Marcuse, da Wolfgang Mommsen a Ernesto Sestan, Delio Cantimori, Georg Friedmann, Benjamin Nelson, ecc., coerentemente impegnata a mostrare il carattere di classe, l’ideologia borghese-capitalista che sottende e ispira fondamentalmente il pensiero e l’opera di Max Weber[8].
La discussione aperta sul pensiero weberiano, che in questi anni sta interessando anche gli studiosi italiani di sociologia, da Ferrarotti a Cavalli a Cerroni a Pagani, investendo direttamente, con rinnovata stimolazione teorica e pratica, tanto la problematica del rapporto tra scienza, ideologia e realtà, quanto il problema, più propriamente politico-sociale del destino dell’uomo nella società borghese, si è trasformata necessariamente in un confronto di idee tra sociologia borghese e sociologia marxista, tra le prospettive del neoliberalismo e quelle della rivoluzione comunista nei paesi a capitalismo altamente sviluppato. In questo contesto, il rapporto Weber-Marx va acquistando nella storiografia weberiana una dimensione sempre meno storiografica e sempre più politico-sociale ed economico-ideologica, che va al di là, pertanto, della stessa prospettiva storico-culturale in cui Karl Löwith, per primo, ha impostato tale confronto[9]. Proprio nella più recente storiografia italiana su Weber, questo problema si è imposto in modo abbastanza energico, particolarmente nel libro di Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, di cui ora appare la seconda edizione arricchita di una nuova introduzione e di due appendici, e nel libro di Luciano Cavalli, Max Weber: Religione e società. Il punto di partenza della discussione è, naturalmente, la metodologia dell’analisi sociale: entrambi gli autori, rifacendosi alla più diffusa tendenza interpretativa della storiografia weberiana a cui abbiamo fatto già cenno, pongono al centro della loro analisi il superamento weberiano del modello causale di analisi storico-sociale, e la sua sostituzione del modello pluralistico, col quale, dice Ferrarotti, Weber risolve definitivamente “la difficile questione dell’apparato ancora causalistico del marxismo storico, l’irrisolto problema del rapporto Unterbau-Überbau, i rapporti materiali di vita come elemento, o “fattore prioritario”[10].
Ferrarotti, forse inconsapevolmente, finisce, in questo modo, con l’avallare la stessa interpretazione del marxismo e del materialismo storico che Weber stesso dava, grazie alla deformazione di cui il marxismo era divenuto oggetto nel clima storico-sociale del revisionismo socialdemocratico della II Internazionale e la polemica tra la scuola storica dell’economia borghese, i marginalisti e i neoclassici del pensiero borghese, per cui il marxismo era inteso e praticato come riduzionismo economico.
La critica weberiana non è puramente negativa: rifiutato in quanto concezione generale della storia, il materialismo storico viene valorizzato come indicazione di una specifica direzione di ricerca. La proposta weberiana ha trovato, fra i marxisti, in György Lukács l’interlocutore più valido e suggestivo. Di fronte alle critiche rivolte all’unilateralità del materialismo storico, Lukács richiama, come sua caratteristica fondamentale, l’impianto dialettico della concezione marxiana della storia. In polemica con il travestimento positivistico da parte di Engels in una relazione meccanica di determinazione, il pensiero di Marx viene ricondotto alle categorie hegeliane, reinterpretate e fornite di un nuovo significato. L’ortodossia marxista non viene più individuata in una teoria sistematica, bensì nell’adozione rigorosa e nella fedeltà del metodo dialettico. I “fatti” storici non vengono studiati e spiegati nella loro forma empirica, individuale, come entità isolate. Essi vengono inseriti nel più vasto quadro del processo storico inteso come totalità. La conoscenza storica viene così a far perno e a identificarsi con questo riferimento di ogni “fatto” al processo “globale”[11].
Ciò che preme a Lukács di stabilire è la trasformazione oggettiva dei rapporti tra gli uomini che hanno determinato l’avvento. Ma tale trasformazione è assunta globalmente, cioè speculativamente, invece che indagata. E in essa, del resto, Lukács non esita a leggere il destino della società capitalistica, condotta dalle sue stesse contraddizioni a negarsi dialetticamente, cioè a dissolversi in una nuova società integrata di là dallo sfruttamento e dalla alienazione. Al weberiano reciproco condizionamento tra il capitalismo e gli altri fondamentali aspetti del mondo moderno viene così sostituita da Lukács la priorità dell’ordinamento economico, al quale si riconoscono natura e funzioni di matrice originaria, forma oggettiva e costruttiva cui vanno ricondotte e nella quale trovano alimento e spiegazione finale le costruzioni ideologiche, le motivazioni psicologiche, individuali e di gruppo, e la coscienza di classe[12].
L’opposizione fra Weber da una parte e Marx e Lukács dall’altra è dunque radicale. Il primo, pur attraverso una molteplicità di ordini di spiegazione, pensa di non potere né di dover mai pervenire a una spiegazione totale, mentre per Lukács, e in genere per i marxisti, non si dà altro schema esplicativo fuor che quello teso a collegare ogni fenomeno, in maniera diretta e univoca, con la totalità di un determinato stadio o livello di sviluppo. Dal punto di vista sociologico l’insufficienza del materialismo storico come “modello” per la spiegazione dello “spirito” capitalistico deriva dalla mancanza della possibilità di spiegare il modo di porsi del soggetto economico in rapporto alle condizioni di fatto mutate. Non basta supporre, in genere, l’avidità o peggio la malvagità umana, per spiegare come chi poteva divenirlo sia in effetti divenuto capitalista. Si tratta pur sempre di categorie psicologiche, di motivazioni d’ordine, per così dire, “spirituale”. Rinunciando ad una critica in termini contenutistici della teoria marxiana, di cui pure si sono interessati economisti come Joseph A. Schumperer e sociologi come Ralf Dahrendorf, richiamando l’attenzione su sviluppi effettivi, empiricamente determinabili, della società capitalistica, sarà bene sottolineare le profonde divergenze metodologiche (concettuali e analitico-strumentali) che contrappongono Weber a Marx e che incidono direttamente sulla loro concezione del destino della ragione nella società moderna. Ho già notato che Weber non ha rifiutato il marxismo per opporgli un’altra teoria sistematica chiusa. Egli si è opposto alle pretese dogmatiche di una spiegazione totale della storia per mezzo dell’economia. In espressioni come “cause autentiche”, “cause ultime”, “in ultima analisi” riferite ai fatti economici, egli vedeva una giustificazione ingenua, priva di alcun valore scientifico, d’una convinzione metafisica, politica o ideologica. Con riguardo alla “spiegazione causale” di un certo avvenimento, al modello weberiano di accertamento empirico di un “condizionamento” attraverso un procedimento di scelta, la molteplicità di un dato empirico e dei rapporti causali che racchiude, di una serie finita e di una certa direzione di rapporti… si contrappone il marxiano richiamo alla “totalità” immanente e alla priorità assoluta e “determinante”, unilateralmente, dell’elemento economico[13].
Come abbiamo visto, la stessa teoria del “tipo ideale”, per quanto insufficientemente precisata, è estranea a un tipo di dottrina sistematica precostituita e indica solo un “criterio di comparazione” provvisorio, con funzioni puramente strumentali, e ipotetico, in attesa di essere verificato empiricamente, ben diversamente da Marx e dai marxisti, tradizionalmente corrivi a servirsi del deus ex machina della dialettica e della totalità per attingere alla spiegazione, “in ultima analisi”, di tutto[14].
Gli studi di sociologia della religione di Weber provano ad abundantiam il carattere analitico dell’impostazione weberiana: i diversi contesti socio-culturali vengono indagati senza ipostatizzare aprioristicamente alcuna forma gestaltica o totalità globale onni-includente. In questa prospettiva l’opposizione fra l’impostazione weberiana e quella marxistica non potrebbe essere più radicale[15].
Nello stesso senso, secondo Luciano Cavalli, “Weber non ha, quindi, non cerca una ʿchiaveʾ dello sviluppo storico (come offerta, ad es., dal ʿmaterialismo dialetticoʾ). Egli esplora una particolare civiltà, cercando di comprenderne gli interni svolgimenti in termini ʿplurifattorialiʾ”[16].
Muovendo dalla necessità di “un confronto tra il pensiero di Weber e quello di Marx e Engels sullo sviluppo capitalistico in Inghilterra”, giustamente il Cavalli rileva la diversità dell’analisi weberiana de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, più polemica contro il marxismo, da quella della Storia economica, più aderente ad esso nella interpretazione storica del capitalismo e della sua genesi sociale.
Per il capitalismo pienamente sviluppato come sistema socio-economico, il pensiero di Weber e dei due pensatori socialisti si fa assai vicino in punti importanti. Weber, come Marx ed Engels, pone in rilievo il cosiddetto aspetto costruttivo del sistema, che in realtà ha due aspetti distinti: 1) la socializzazione (per usare il linguaggio di oggi) a cui tutti sono soggetti fin dal momento della nascita; 2) la coercizione non violenta, che tanto Marx che Weber vedono soprattutto nel suo aspetto economico: tanto gli imprenditori quanto gli operai devono adeguarsi alle leggi economiche del sistema, per sopravvivere[17].
Nonostante questa vicinanza, le prospettive di Weber e di Marx ed Engels sono tuttavia evidenziate nella loro diversità[18], il che non toglie, tuttavia, secondo l’Autore, la possibilità di ristabilire una continuità di sviluppo e una identità di posizioni nell’ambito della sociologia della religione.
Sia per Marx che per Weber la religione non è per la borghesia in ascesa un conscio inganno – anzi, per il nostro autore è fede autentica; e di essa si possono studiare le conseguenze pratiche e non calcolate. Le idee e soprattutto le istituzioni autoritarie del cristianesimo divengono poi per entrambi uno strumento deliberato di controllo sociale per la borghesia in declino. Per entrambi gli autori, comunque, la religione sta ormai allentando la sua antica presa sull’uomo. Ma, come si ricorderà, qui le prospettive temporali e le aspettative di Marx e dei marxisti sembrano invertirsi[19].
Occupandosi, infine, delle divergenze, il Cavalli si riferisce alle critiche che da parte marxista sono state e sono rivolte alla posizione weberiana, in particolare al suo “razionalismo economico”:
questo razionalismo viene definito “tecnico” e, in ultima analisi, “borghese-capitalistico”: con particolare riferimento al fatto che lo stesso Weber sembra considerare l’impresa privata e il “lavoro libero” alla stregua di “necessità tecnologiche”, e ritiene apparentemente che lo sviluppo tecnico possa solo risolversi in una accresciuta schiavitù umana, per l’oppressione esercitata, da un lato dalle macchine, dall’altro dalla burocratizzazione, nel loro ruolo sempre più rilevante. Particolarmente criticabile e sospetto appare poi ai critici l’auspicio weberiano che un capo carismatico, attraverso il meccanismo della democrazia plebiscitaria, giunga a controllare il potere razionale burocratico. Questo auspicio avrebbe idealmente aperto la via al potere irrazionale dei due duci tra le due guerre, e sarebbe quasi un modo parzialmente inconsapevole di dar ragione, da posizioni opposte, alle previsioni di Marx ed Engels sulla incapacità della borghesia di governarsi da sé e alla teoria leninista della involuzione della democrazia borghese nella fase imperialista del capitalismo. La posizione di Weber va però guardata con animo sereno. Inoltre, è da ritenere che la critica astratta, condotta per esempio da Marcuse, sia particolarmente fuorviante. Weber cercava di guardare con realismo agli eventi di cui era spettatore o che giudicava prevedibili, avendo per giunta in mente la particolare situazione tedesca. Come ho già avuto occasione di dire, egli riteneva l’economia capitalistica razionale perché fondata sull’impresa privata e sul lavoro libero, come condizioni del calcolo economico e della copertura dei bisogni. Non credeva il socialismo marxiano veramente realizzabile e gli era in linea di massima avverso, perché non vedeva come calcolo economico e copertura dei bisogni potessero attuarsi soddisfacentemente. Una considerazione che ha reso a lungo scettici e ostili al socialismo le migliori teste economiche; e che ha trovato la sua puntuale conferma nelle difficoltà, non ancora risolte dopo tanti anni, della Russia e degli altri paesi dell’Est. Messe le cose in questa luce realistica, appaiono più chiaramente infondate anche le accuse (implicitamente e anche esplicitamente raccolte da critici illustri) che fanno di Weber quasi un consapevole ideologo degli interessi capitalistico-imperialistici in senso deteriore. Nella misura in cui lo era, lo era se mai per convinzione di studioso e per amor di patria. Come si è visto, Weber credeva che l’unità storico-sociologica fondamentale fosse, ormai, la nazione, e alla sua nazione egli attribuiva potenzialmente e desiderava una grade funzione civilizzatrice, che poteva compiersi – secondo lui – solo su una base di sviluppo economico razionale, ossia capitalistico, e nei modi dell’imperialismo del tempo[20].
Per quanto si riferisce all’oppressione della macchina sull’uomo, i marxisti ed altri sostengono – contro Weber – che questo è il frutto della tecnica borghese, ossia al servizio della proprietà privata dei mezzi di produzione; e che, abolita questa, la tecnica può diventare uno strumento di liberazione dell’uomo. Ciò sostengono con più convinzione di quanto facesse lo stesso Marx maturo, forse perché la tecnica sembra oggimai offrire all’uomo possibilità del tutto impensabili un tempo. Tuttavia non mi pare che vi siano dati empirici che consentano di credere realisticamente in prospettive così ottimistiche come quelle che Marcuse, ad esempio, sembra condividere, con particolare riguardo all’automazione. Anche al di fuori della “tecnica borghese” – cui possono essere portate accuse precise, come quella appunto di frenare l’automazione[21].
Circa la burocratizzazione, si sono sentiti principalmente due generi di obiezioni: che l’aspettativa weberiana sembra contraddetta dai fatti, che indicano l’esistenza di un optimum di burocratizzazione, oltre il quale si perde quella efficienza che Weber ascriveva alla burocrazia; e che, anche per questo aspetto, l’automazione si presenta come una premessa liberatrice. Di nuovo, la cosa non è ovvia. Proviamo, intanto a distinguere tra mondo capitalistico occidentale e mondo socialista orientale. In Occidente, non c’è dubbio che il fenomeno della burocratizzazione ha continuato e continua a espandersi – questo mi pare l’essenziale – a sempre nuovi campi, e in nessuno di essi si vede veramente raggiunto un livello finale di intensità, come conseguenza o di misure sistematiche di salvaguardia dell’efficienza, o dell’automazione. Insiste però soprattutto sull’espansione continua: basta pensare soprattutto alle associazioni volontarie di ogni campo, non solo politiche e sindacali, ma assistenziali, sportive, ricreative. L’intervento dello Stato nel campo economico e del benessere, poi, ha dato un impulso formidabile al fenomeno. In conclusione c’è stata e c’è burocratizzazione crescente in estensione e intensità. E il risultato complessivo è certamente tale da dar ragione ai timori di Weber. Sia che si preferisca studiare il comportamento di massa dal punto di vista della manipolazione, che da quello della partecipazione (o meglio di una non-partecipazione che si cerca di spiegare con una pluralità di condizioni “oggettive”, che non vengono mai convenientemente approfondite) è certo che assistiamo ad un esercizio sempre più ridotto di quelle capacità di scelta e responsabilità individuali che secondo Weber caratterizzano l’uomo propriamente tale. Se poi rivolgiamo l’occhio ad Oriente, dobbiamo constatare che la previsione weberiana, socializzazione uguale burocratizzazione, si è pienamente avverata: la burocratizzazione ha superato in estensione e intensità, i livelli occidentali: e il risultato palese è che, in generale, si è maggiormente ridotto lo spazio in cui si forma e si esplica l’uomo vero che anche Weber voleva[22].
Resta da fare un ultimo rilievo. Noi abbiamo qui sostenuto che Weber era un difensore della libertà, almeno nell’intenzione (senza voler con questo suggerire un facile giuoco costruito sulla sua distinzione tra intenzioni e conseguenze non intenzionali del pensiero e dell’agire umano). La polemica di queste ultime pagine ha messo in chiaro come se ne possa dubitare. Ma proprio Politik als Beruf, questo scritto decisivo, dovrebbe consentire una chiarificazione anche di tale punto. La rivendicazione del primato del politico rispetto al burocrate, è rivendicazione dei principi di scelta e responsabilità che fanno l’uomo; e significativamente il discorso si allarga poi a considerare l’uomo che può avere la vocazione per la politica, l’uomo genuino in generale… Alle masse, certo, Weber tendeva a riserbare un ruolo sostanzialmente passivo oggi come ieri: il capo carismatico le forma con il suo soffio vivifico, al modello delle élites esse possono fino ad un certo punto plasmarsi. Non si ritrovano in Weber passi che consentano ravvicinamenti alle previsioni teorico-utopiche e alle (rare) figurazioni marxiane di una nuova umanità di esseri onnilateralmente sviluppati, partecipanti, collettivamente e razionalmente padroni del proprio destino. Weber non si poneva mai, come s’è detto, certe prospettive temporali, certe aspettative. E forse anche non avrebbe potuto in ogni caso condividerle, non solo per considerazioni sociologiche, ma meta-sociologiche, per esempio intorno alla ragione o alla “natura” dell’uomo, che affiorano nella sua opera. Tuttavia non va nemmeno dimenticato che la riflessione sulle sette gli aveva suggerito per la stessa Germania formule (“puritane”) di organizzazione sociale basate sulla partecipazione democratica, come strumenti per la formazione massiva di quel tipo d’uomo nuovo che anch’egli auspicava[23].
Gli ultimi brani citati dell’opera di Luciano Cavalli ci sembrano significativi per mettere in evidenza quanto abbiamo già osservato, che cioè l’attualità dei problemi di metodo weberiani ha un immediato carattere politico-sociale, nel senso, appunto, che contiene problemi della prassi storica e sociale nostra, problemi ideologici, politici e sociali. In questo senso, le analisi conclusive del Cavalli completano la prospettiva del Ferrarotti, facendo uscire, anche se non del tutto, il problema del confronto Weber-Marx dall’ambito falsamente neutro, ancora troppo weberiano, dell’analogia storico-culturale. Al di là, infatti, delle indubbiamente interessanti analogie metodologiche, restano da approfondire e radicalizzare i motivi di opposizione concreti tra Weber e Marx, tra sociologia marxista e quella weberiana. Non dunque un conflitto tra la sociologia, costitutivamente analitica e scientifica nel senso dell’analiticità e scientificità weberiane, come ritiene Ferrarotti, e il marxismo, bensì tra due forme diverse di analisi sociologica, due forme di scienza e metodologia analitica, è ciò che sta in fondo al conflitto che oppone Weber a Marx. Non solo, però, due modi diversi di intendere e praticare la scienza sociale, bensì anche due diversi modi di concepire la realtà e di viverla, in relazione a due diversi stati sociali e storici, due diverse classi in movimento.
La critica, d’altra parte, che da Lukács a Marcuse è stata mossa al pensiero weberiano, rivendicando il carattere dialettico dell’analisi sociale, mostrando i presupposti e i significati classistici dell’opera weberiana, richiamandosi alla “totalità” della struttura sociale, una volta spogliata dai rivestimenti forse ancora troppo hegeliani della dialettica speculativa, porta, da un lato, al riconoscimento della possibilità di una nuova analitica sociologica, fondata proprio sulle categorie storico-sociali del marxismo e del leninismo, dall’altro, a respingere ancora una volta le pretese sempre ricorrenti del pensiero borghese di essere l’unico depositario dell’analisi scientifica come tale, il che deriva dalla concezione metastorica e neutrale della scienza e del pensiero proprio della cultura borghese. Rispetto al tipo di analisi sociologica contrapposto da Ferrarotti al marxismo, oltre al fatto che ci sembra tutto ingiustificabile che oggi si identifichi un certo aspetto e una certa fase storica del pensiero lukácsiano con tutto il marxismo come tale, da Marx ad Engels a Lenin, ecc., credo necessario osservare come il confronto Weber-Marx e la critica che Ferrarotti muove al marxismo sono costruzioni weberiane, essendo dal Ferrarotti elaborate e definite sulla base non solo della concezione che Weber aveva della scienza sociale – e che, d’altra parte, non sembra che il Ferrarotti accolga completamente nella sua concezione della “sociologia come partecipazione” – ma anche e soprattutto sulla base dell’idea che Weber aveva del marxismo e del materialismo storico, idea sulla quale Ferrarotti costruisce la sua concezione del marxismo, che ritrova e identifica con le sue formulazioni dogmatiche del materialismo dialettico più legate all’eredità dello stalinismo. Prima ancora, tuttavia, di chiarire meglio la natura dello studio storiografico e teoretico su cui gran parte della sociologia borghese ha risuscitato il modello criticistico della logica idealtipica weberiana, è necessario fare alcune considerazioni sulla stessa metodologia weberiana, e, fondamentalmente, su quella mancanza di storicità dell’analisi cosiddetta “plurifattoriale”, che la critica marxista rileva come fattore determinante della reificazione atomistica in cui la pluralità idealtipica dell’analisi formale è necessariamente avvolta, in conseguenza dei presupposti culturali borghesi della stessa analisi[24]. Sul problema e sul significato della “storia”, in Weber, si è soffermato Günter Abramowski nel suo libro, Das Geschichtsbild Max Webers, che, ancor di più, forse, del libro di Ferrarotti e di Cavalli, ci sembra rappresentativo della ideologia weberiana dominante negli studi di scienza sociale contemporanea. Come dice il sottotitolo, il libro vuole riprendere il significato della weberiana “storia universale” in relazione al “processo di razionalizzazione occidentale”. Anche se, dice l’Abramowski, “lo stesso Weber non ha sviluppato coerentemente la sua concezione storico-universale e non ci ha lasciato nessuna evidente rappresentazione della storia mondiale”[25], egli, “con la sua decisa rinuncia a costruzioni metafisiche e a interpretazioni di senso teologiche”, indicò la possibilità e la necessità di una analisi scientifica dei processi storici[26]. L’interesse storico di Weber scaturisce dal bisogno di comprendere i caratteri del capitalismo occidentale, la sua struttura economica, politica, sociale tipica, per cui Weber “studia la storia universale dal punto di vista dell’eccezionale razionalità europea e in vista del processo della razionalizzazione occidentale”[27]. La conoscenza storica “universale” che Weber costruisce, è, dunque, in funzione della coscienza storica e sociale dell’esistenza stessa del capitalismo occidentale:
In quanto le ricerche storico-universali di Weber illuminano la razionalità autentica del nostro mondo, esse ci offrono nello stesso tempo la comprensione storica e umana di noi stessi. Entro la problematica storica della cultura-razionalità europea, sta, come motivo determinante, la domanda esistenziale: che significato hanno per la nostra umanità le forze del capitalismo razionale, della scienza razionale, degli apparati e delle burocrazie razionali? Come, nelle condizioni della “burocratizzazione” progressiva “fatale” e del disincantamento scientifico del mondo, sono possibili libertà umana, azione responsabile e condotta piena di senso?[28].
La posizione di valore, dice Abramowski, da cui Max Weber valuta il processo occidentale della razionalizzazione, è la libertà dell’individuo autodeterminantesi, della personalità che agisce in modo “eticamente responsabile”[29].
La coscienza del conflitto individuale che la razionalizzazione produce sta al centro della “responsabilità etica” del borghese weberiano:
Un eccesso di ordine razionale rispetto allo scopo restringe lo spazio di movimento del singolo, mette in discussione la libertà di decisione e l’autoresponsabilità dell’uomo. La razionalità dei rapporti umani moderni scaturita dalla razionalizzazione del comportamento umano, si volge contro l’uomo stesso. In questo consiste, secondo Weber, l’aspetto problematico della nostra cultura razionale[30].
Eliminare il modo di produzione capitalistico e la divisone del lavoro date con la moderna organizzazione della società e con la specializzazione delle facoltà, Weber non lo ritiene né possibile né desiderabile. Un individuo unificante in se stesso tutte le possibilità umane, multilateralmente formato, non può più, per questo, essere il compito moderno dell’uomo[31].
L’irreversibilità della razionalizzazione capitalistica costringe l’uomo ad accettare il ruolo specialistico, socialmente atomizzato, che il sistema burocratico gli assegna: la rinuncia alla “totalità” e “multilateralità” si pone come compito “eticamente responsabile” dell’uomo moderno costretto a vivere nella razionalità. Questo destino, in cui, secondo l’Abramowski, consiste “l’etica della responsabilità” maxweberiana, che è lo scopo necessario, irreversibile e immodificabile, dello sviluppo necessariamente capitalistico della moderna società industriale, è la base su cui Weber costruisce la sua immagine della storia. L’immagine weberiana della storia universale non indica nessun contenuto suo proprio, né normativo, né ideologico, né metafisico:
La critica di Weber alle immagini storiche della forma su indicata non è fondata infine sulla sua idea dell’uomo. Questi non deve essere considerato come funzionario di un determinato processo storico, come portatore dello spirito universale…, ma come individuo che si comporta in piena libertà e auto-responsabilità, secondo la misura del suo ideale di storia autonomamente scelto e il suo comportamento da esso determinato. Il radicale “disincantamento” del mondo e della storia esprime in Weber un radicale inasprimento del pensiero dell’autonomia, che, secondo la sua opinione, non è considerato abbastanza coerentemente in ogni progetto storico. Autonomia del comportamento secondo Weber non consiste nell’arbitrario ordinamento dell’essere in cosmo razionalmente intelligente; non nell’identificazione con un processo storico oggettivamente pieno di senso; non nel consenso ad un evento inteso come formazione organica; ma neanche nel riconoscimento di un “segno di valori” filosoficamente dimostrabile, sovratemporale… Se – e questa è la convinzione di Weber – un ordine sociale “in sé” razionale, naturale oppure “storico”, non è scientificamente giustificabile, allora quest’ordine non può essere voluto e progettato solo sulla base dell’autonomia responsabile… Poiché le tendenze della storia empiricamente verificabili non portano in sé un senso normativo, lo storico ha la possibilità – e il dovere – di mantenere una distanza critica rispetto a queste tendenze[32].
L’autonomia critica dell’analisi formale, è il luogo logico e lo spazio avalutativo in cui, dunque, si colloca l’immagine metodologica della storia weberiana.
“Storia” non è nessun reale processo, nessun valore, nessun significato specifico, nessuna prassi, bensì solo il “modo” razionale, l’atteggiamento neutrale entro cui l’uomo riconosce le proprietà, i significati, i valori, la realtà di un determinato fatto. Storia è la possibilità della descrizione storiografica, della comprensione individuale della realtà. La “distanza critica” dello storico rispetto alla storia è la condizione logica della storicità storica, l’essenza formale, la condizione razionale che fa sì che la realtà appaia e sia storica. Questo atteggiamento storiografico è costituito dalla razionalità formale, entro cui si pongono le varie prospettive analitiche delle scienze. Da ciò il legame intimo, rilevato dall’Abramowski, tra l’immagine weberiana della storia universale, la nozione di libertà “eticamente responsabile” e il “processo della razionalizzazione occidentale” – che è, fondamentalmente, il legame tra la nozione neutrale della storia e la nozione formalistica della razionalità analitica. È la ragione che produce la prospettiva storiografica: il formalismo diviene idealismo[33]. È la ragione formale, che attraverso la “distanza critica” scelta dall’osservatore-storiografo, analizza la realtà “storicamente”. La ragione formale rende possibile la comprensione storica, e la conoscenza scientifica della storia è possibile solo a partire dalle categorie idealtipiche della ragione formale. Lo storicismo storiografico weberiano deve, necessariamente, lasciare non razionalmente e non storicisticamente spiegata proprio la genesi stessa di quella ragione formale, entro cui pur si costituisce la prospettiva storiografica della storia weberiana. È chiaro a questo punto – così come l’analisi dell’Abramowski l’ha messo in luce – che l’immagine weberiana della storia universale è profondamente legata alla storia della borghesia capitalistica: essa viene costruita e elaborata sulle premesse logico-metodologiche della ragione borghese-capitalistica, e ne porta il modello logico e il significato di classe: essa, cioè, non può spiegare se stessa, la propria origine, la propria “storia”. Questa mancanza di storicità della storia e dello storicismo weberiano riflettono adeguatamente, infatti, la mancanza di storia della borghesia capitalistica, l’immobilità atomistica del borghese, destinato dal “fatale” processo di razionalizzazione burocratica, a restare e ad essere senza storia, senza unità, senza totalità – un elemento amorfo e indifferente di una totalità trascendente che non potrà mai comprendere, “uno specialista senza intelligenza e senza cuore”, così come si prevedeva alla fine dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Questa fondamentale astoricità della ragione weberiana – che è alla base delle sue contraddizioni materiali, del contrasto originario tra ragione formale e quella materiale, che è contraddizione tra ragione ed esistenza, tra capitalismo e socialismo, tra economia e bisogni – contraddizione che giustamente Ferrarotti rileva come problema centrale non solo dell’opera weberiana, ma di tutta la società contemporanea – questa concezione e struttura astorica della ragione formale weberiana è quella nella quale dobbiamo ritrovare la spiegazione della sua stessa contraddittorietà, che è la contraddizione di cui vive la società borghese come tale. Considerando questa struttura metastorica della ragione weberiana come la sua caratteristica più propria, credo che i due punti fondamentali della metodologia weberiana, la sua analiticità plurifattoriale e la sua avalutatività possano venire ridimensionati, sia storicamente sia teoreticamente. La molteplicità delle prospettive analitiche che la ragione formale permette di realizzare, attraverso la sperimentazione e la scelta dei “punti di vista”, consente una conoscenza multilaterale della realtà – secondo un’espressione, propria della logica dialettica, cara a Lenin[34], solo quando tale varietà prospettica supera gli schemi fissi della logica formale, ipotetico-deduttiva, entro cui è costruita la ragione formale weberiana. Ma questo presuppone una concezione della realtà, della ragione e della logica, oltre che della metodologia, dell’epistemologia e della scienza, profondamente diversa da quella di Max Weber. Entro gli schemi fissi della logica formale, l’analitica weberiana trasforma necessariamente il prospettivismo o plurifattorialismo in atomismo. Una metodologia prospettica, nel senso stesso di quella conoscenza “aperta” alla quale Ferrarotti ritiene di poter pervenire sulle orme dell’analitica weberiana, è necessariamente una metodologia dialettica – sia pure dialettica non in un senso metafisico-hegeliano, e tanto meno extrascientifico e metasperimentale. Che l’analitica weberiana, d’altra parte, non sia nessuna conoscenza multilaterale, e non abbia in sé nessuna tensione autenticamente critica di apertura al nuovo, è chiaramente dimostrabile guardando al contenuto stesso dell’opera weberiana – alla coerenza di tutta la sua produzione scientifica. All’interno, infatti, di tutte le prospettive analitiche entro cui Weber studia la realtà – la prospettiva economica, sociale, religiosa, giuridica, politica – in realtà viene riflesso un unico modello interpretativo, un unico modello di sviluppo, una sola forma di esistenza, una identica struttura dell’uomo. Nell’ambito neutrale della rappresentazione idealtipica la sostituzione del modello causalistico col modello di analisi condizionale, conseguente al superamento della spiegazione metafisico-dogmatica e la sua sostituzione con la scientifico-analitica, non costituisce, di per sé, l’avvio ad una reale comprensione prospettica della realtà, se non nella misura in cui l’analisi scientifica modifica radicalmente la sua struttura metodologica e la sua fondazione filosofica. Il materialismo storico-dialettico, scientificamente inteso, può effettivamente soddisfare queste condizioni e richieste, senza rinunciare né alla dimensione dialettica né a quella analitica. In quanto racchiuso nell’ambito della concezione logico-matematica della ragione formale, il prospettivismo weberiano è necessariamente legato alle premesse formalistiche e atomistiche dei sistemi epistemologici del neopositivismo e del pragmatismo, per i quali il problema stesso del destino della ragione resta necessariamente un problema senza senso. L’unità sostanziale del modello e della interpretazione weberiana della realtà è direttamente presente in quello che è il presupposto realistico immediato che sorregge la stessa logica idealtipica, la quale, a dire dello steso Weber, non si può intendere senza i contenuti propri dell’economia politica classica: la forma ipotetico-deduttiva e il contenuto borghese capitalistico dell’economia politica classica modellano la ragione formale e la ragione materiale, la loro unità contraddittoria. Il calcolo del capitale, la lotta competitiva della concorrenza, l’appropriazione monopolistica, l’espropriazione dei lavoratori dai mezzi della produzione, la politica di potenza dello Stato nazionale, il colonialismo e la necessità dell’imperialismo, l’identificazione del diritto con la violenza, della giustizia con la forza, dell’amministrazione con la burocrazia, sono categorie storico-sociali costituenti la generale ideologia borghese-capitalistica entro cui si inserisce e da cui è compresa l’analisi scientifico-formale weberiana, ritrovandosi sostanzialmente intatta ed unitaria in tutte le ricerche weberiane, e in quelle di sociologia economica, e in quelle politiche, religiose, giuridiche, etiche, metodologiche, ecc.
Una presa di coscienza “totale” del significato storico-sociale del pensiero weberiano credo che sia necessaria, oggi, per contestare le interpretazioni ideologizzanti che si basano sul malinteso prospettivismo weberiano, demistificando non tanto l’opera scientifica e la sua metodologia, quanto l’ideologia borghese che, attraverso Weber, è penerata nei valori e nel metodo dell’analisi sociologica contemporanea. E questo si rende tanto più necessario, oltre tutto, per demistificare la falsa immagine del marxismo cresciuta sul terreno ideologico della società borghese che, d’altra parte, è stata molto spesso avallata e giustificata oggettivamente dalle correnti dogmatiche del materialismo dialettico. La dialettica macrosociologica lukácsiano-marcusiana, che Ferrarotti crede di ritrovare nel pensiero stesso di Marx, non ha, nel suo fondo, una matrice storico-culturale molto diversa da quella del razionalismo analitico maxweberiano. Nel giovane Hegel, infatti, da cui e Lukács e Marcuse hanno preso ispirazione nell’elaborazione di una dialettica sociale macroscientifica, lo stesso Weber dové molto probabilmente trarre elementi decisivi per la sua formazione politico-sociale ed economica, così come Johannes Winckelmann ha dimostrato in modo particolare per la genesi della sua concezione dello Stato[35]. Anche se polemicamente rovesciato, l’hegelismo ebbe una certa funzione all’interno della cultura storicistica e neo-kantiana in cui maturò il pensiero weberiano, a contatto con i grandi storici del secondo Ottocento, Ranke, Mommsen, Grimm, radicalizzando la generale concezione contemplativa della conoscenza storica, l’oggettività dello spirito storico, su cui crebbe la concezione metodologica della storia che abbiamo visto propria di Weber. Il Der junge Hegel di Lukács, anche se composto in un’epoca in cui lo storicismo borghese non aveva quasi più nessuna influenza su di lui, riflette la presenza indubbia dell’hegelismo o dell’antihegelismo dell’ambiente culturale tedesco di Heidelberg in cui Lukács subì la forte influenza dell’hegelismo. In questo stesso ambiente, in cui le più diverse tendenze dello storicismo borghese si erano fuse e confuse con le varie direzioni del revisionismo socialdemocratico, la polemica antimarxista di Weber, ma non soltanto sua, si confonde nel generale processo di mistificazione e deformazione del marxismo, identificato ora con le posizioni di Bernstein, ora con quelle di Lassalle, ora col profetismo romantico alla Neumann, ora con le posizioni di Sombart e di Schmoller; quasi sempre con le tesi ufficiali del partito social democratico. Non per un caso, pertanto, il marxismo di Lukács e Marcuse – così come il pensiero di Mannheim e di Bloch – maturato entro questo ambiente, in cui la deformazione ideologica reciproca dei socialdemocratici e dei liberalnazionali da strumento di lotta e di tattica politica diviene concezione del mondo e strategia filosofica, recepisce direttamente i contenuti e le forme che la reazione culturale borghese finisce con l’imporre al dibattito culturale e alla lotta politica. Attraverso Geschichte und Klassenbewusstein, lo scritto posteriore Mein Weh zur Marx, di Lukács, Geist derUtopie, di Bloch, ed anche Hegels Ontologie, di Marcuse, è possibile riconoscere il processo di deformazione borghese del pensiero marxista che viene trasmesso attraverso la mediazione dell’hegelismo, e da cui, tuttavia, lo stesso Lukács, Bloch e Marcuse sembra siano ancora impegnati a liberarsi.
Perché sia efficace e radicale, la critica di Ferrarotti non dovrebbe essere rivolta soltanto al pensiero dialettico macrosociologico di Lukács e di Marcuse, bensì anche, e a maggior ragione, all’analisi formalistica strettamente legata alla microsociologia e, nello stesso tempo, al formalismo sociologico di tipo parsonsiano. Entrambe le forme di metodologia, pur nell’apparente diversità di categorie e di procedimenti logici, conservano una identità fondamentale di fondazione epistemologica e di risultati operativi che sarebbe interessante verificare sul piano storico-culturale e sociologico. Di questa identità, che nel pensiero di Hegel trova la sua formulazione sistematica, che è ancora presente da un lato nel sociologismo borghese, dall’altro nel dogmatismo marxista, il marxismo e il leninismo, il materialismo storico e dialettico scientificamente intesi e praticati, cercano particolarmente oggi di liberarsi, liberando nello stesso tempo l’indiscutibile originarietà, novità, che non è soltanto sociologica e metodologica, del pensiero di Marx e Lenin, della nuova implicazione analitico-dialettica e dialettico-analitica che essi hanno praticato e riconosciuto nella nuova scienza da essi elaborata[36]. Ma perché questa implicazione diventi scientificamente operante nell’analisi sociale, è necessario, credo, spostare innanzi la “autonomia critica” di cui parla Ferrarotti riempendola di contenuti sociali e politici ben determinati, anche se non predeterminati alla ricerca stessa, legando concretamente, nella prassi, l’analisi alla dialettica sociale, la riflessione sulla realtà storica al movimento effettivo della realtà storica, legando la critica sociale alla rivoluzione sociale, di cui la scienza non può essere, in quanto sociale, né spettatrice disinteressata, né “punto di vista critico”. Che l’analisi sociale debba poggiare necessariamente, per la sua stessa efficacia metodologica e fondazione epistemologica, sul processo oggettivo della lotta di classe e sull’impegno soggettivo della milizia rivoluzionaria, lo ha indicato, praticamente, lo stesso Lukács, la sua tormentata e contraddittoria Weg zur Marx, che si ripropone oggi ancora più attuale di quanto possa essere il ritorno a Weber, anche se metodologicamente e ideologicamente corretta e riformata sulla base della stessa esperienza lukácsiana, così come se ne prospetta il significato nella illuminante Prefazione scritta da Lukács per la edizione italiana di Storia e coscienza di classe del ’67.
Ancora un’ultima considerazione sul tentativo di Cavalli di sviluppare organicamente ed estendere gli studi di sociologia della religione di Weber, tentativo che, nonostante il vasto e faticoso impegno dell’Autore, ci è sembrato naufragare per la sterilità intrinseca dell’impostazione metodologica del Weber, così come lo ha rigorosamente rilevato Maxime Rodinson in Islam e capitalismo[37]. L’ampia e ricca ricostruzione storiografica del pensiero sociologico weberiano, fatta da Cavalli, non ci sembra, infatti, che possa riuscire e rivivificare l’impostazione ideologica che Weber, nonostante il cosiddetto metodo plurifattoriale, dà all’analisi sociologica delle strutture economiche del capitalismo in rapporto alle “religioni mondiali”, così come l’Autore a volte mostra di riconoscere. Estromesse dalla prassi, dal concreto movimento storico sociale, “religione” e “società”, in quanto modelli idealtipici del “senso intenzionato”, restano tipizzazioni senza dialettica, senza movimento, la cui efficacia euristica è limitata e racchiusa entro gli schemi logico-formali del “senso soggettivo”. Il “punto di vista religioso” – deterministicamente ridotto alla tipologia psicologica della teologia calvinista – riduce lo “spirito” del capitalismo alla “fatalità” meccanica dell’homo theologicus, che si riversa ideologicamente nella presunta ideologica “fatalità” della razionalizzazione capitalistica. Dall’Etica protestante e lo spirito del capitalismo a Economia e società e alla Storia dell’economia, la sociologia della religione weberiana sembra più essere una fenomenologia descrittiva di alcuni aspetti, certo interessanti, del capitalismo borghese, da quello commerciale a quello industriale-monopolistico, che un’analisi storica, per quanto parziale, delle relazioni storiche tra religione ed economia. La comparazione e l’analogia non possono sostituire nessuna effettiva analisi storico-genetica. D’altra parte, all’interno del modello calvinistico dell’homo theologicus è facilmente riconoscibile il travestimento ideologico dell’astrazione borghese dell’homo oeconomicus, il che riporta ancora una volta il nostro discorso sulla sostanziale unità e identità ideologica della sociologia economica e di quella religiosa. Il fatalismo economico, storico e sociale ha caratteri teologici, così come, certo, il fatalismo teologico ha, secondo l’interpretazione weberiana, significati storico-sociali. Questa complementarietà di prospettive, che giustamente Reinhard Bendix ha cercato di riavvicinare e spiegare sull’indicazione anche della sociologia politica[38], si lega necessariamente all’ideologia e alla concezione del mondo borghese-cristiano, che Weber, contrariamente a Nietzsche, subisce più profondamente, perché incapace di rimuovere il peso. La “stoica rassegnazione” che Karl Löwith scorge nel disincantamento scientifico weberiano a noi sembra piuttosto disperazione, impotenza di fronte alla “fatalità” teologica del capitalismo. Karl Jaspers ha parlato di un “segreto” che Weber portava con sé[39]; lo stesso Weber, nel “sottosuolo” del suo pensiero, avvertiva l’impotenza, il fallimento, la disperazione che corrodevano lentamente ma inesorabilmente la sua esistenza. La sua malattia nervosa riveste, in questo senso, un significato “totale”, va al di là della stessa esperienza individuale weberiana, investendo le sue scelte di classe e lo sviluppo oggettivo della prassi che le comprendeva. Il “segreto” di Weber, la sua malattia, era certo legato alla “presenza teologica” del capitalismo monopolistico, del quale egli stesso aveva sondato le contraddizioni insuperabili, alla consapevolezza, ora ottimisticamente scientifica ora disperata, della disumanizzazione a cui il capitalismo condannava necessariamente l’umanità. Riportando, tuttavia, la malattia al significato e ai contenuti sociali, di classe, del pensiero weberiano, ai conflitti, quelli avvertiti e quelli non scoperti, che la sua scelta di classe provocava entro l’impossibile liberalismo umanistico, la sua fiducia nella libertà e nella razionalità della cultura, il “segreto” di Weber non è più un segreto per noi, oggi. Parlare della malattia weberiana in termini di “segreto” o “mistero”, vuol dire nascondersi ancora una volta il suo significato reale, rinunciare, nello stesso tempo, a riconoscere, mettere in discussione e rovesciare la scelta di classe, i contenuti sociali, la concezione del mondo, i valori stessi di
[1] Cfr. C. W. Mills, L’immaginazione sociologica, Milano, 1962, e R. Dahrendorf, Società e Sociolgia in America, Bari, 1967.
[2] Cfr. gli scritti di E. Hula, C. Mierendorff, G. Bäumer, K. Leichter, in Max Weber zum Gedächtnis, Köln und Opladen, 1963, pp. 98-101, 116-157.
[3] Cfr. Bürgerliche Ökonomie im modernen Kapitalismus, Berlin, 1967, pp. 48-76.
[4] Cfr. K. Löwenstein, Max Weber staatspolitische Auffassungen in der Sicht unserer Zeit, Frankfurt am Main-Bonn, 1965.
[5] Cfr. W. Mommsen, Max Weber und die deutsche Politik 1890-1920, Tübingen, 1959.
[6] Cfr. Max Weber und die Soziologie heute, Tübingen, 1965.
[7] T. Parsons, Max Weber: The Theory of Socil and Economic Organization, London, 1964, pp. 3-88.
[8] G. Lukács, La distruzione della ragione, Milano, 1959, pp. 607-627; Max Weber und die Soziologie heute, cit.; D. Cantimori, Nota introduttiva a M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, 1966; E. Sestan, “Max Weber”, introduzione a L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, 1965, pp. 7-59.
[9] K. Löwith, “Max Weber und Karl Marx” in Gesammelte Abhandlungen,Stuttgart, 1960, pp. 1-67.
[10] F. Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Bari, 1968, p. 38.
[11] Ivi, p. 166.
[12] Ivi, p. 168.
[13] Ivi, pp. 174-175.
[14] Ivi, p. 176.
[15] Ivi, p. 191.
[16] L. Cavalli, Max Weber: Religione e società, Bologna, 1968, p. 23.
[17] Ivi, p. 478.
[18] Ivi, pp. 478-481.
[19] Ivi, pp. 481-482.
[20] Ivi, pp. 483-485.
[21] Ivi, pp. 485-486.
[22] Ivi, pp. 486-487.
[23] Ivi, pp. 488-489
[24] La prima e fondamentale presa di posizione marxista nei confronti dell’analitica weberiana è in Storia e coscienza di classe di Lukács, ripresa poi da H. Marcuse nella relazione al congresso di Heidelberg del ’64, Industrializzazione e capitalismo, ripresa ancora più efficacemente da K. Kosik in La dialettica del concreto.
[25] G. Abramowski, Das Geschichtsbild Max Webers, Stuttgart, 1966, p.10.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 14.
[28]Ibidem.
[29] Ivi, p. 162.
[30] Ivi, p. 163.
[31] Ivi, p. 165.
[32] Ivi, pp. 176-177.
[33] Cfr. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit.
[34] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Milano, 1958, pp. 346-347.
[35] J. Winckelmann, Gesellschaft und Staat in der verstehenden Soziologie Max Webers, Berlin, 1957.
[36] Cfr. il nostro Prassi e scienza sociale, Milano, 1967.
[37] M. Rodinson, Islam e capitalismo, Torino, 1968, pp. 98-139.
[38] R. Bendix, Max Weber. Das Werk, München, 1964.
[39] K. Jaspers, Max Weber, Tübingen, 1926.