Nicola Massimo de Feo, 15/12/2020
Materiale datato: 20/01/1992
Ne Il folle come operaio sociale (1992) de Feo rintraccia la funzione distruttiva della voce dei folli nella società-gabbia del capitalismo e della morale borghese, che ricalca l’antagonismo carcerario di cui l’autore aveva parlato due anni prima.
La trasformazione del conflitto di classe nella forma della malattia mentale e la conseguente ghettizzazione dei folli abbandonati seguono il filo rosso dell’attacco politico alla legge Basaglia che solo quattordici anni prima aveva chiuso i manicomi. Il folle è privato di ogni tipo di intelligenza e quindi sostanzialmente inutile al processo produttivo: è in questa sofferenza che il malato mentale ritrova la sua identità, il suo linguaggio che vuole liberarsi e liberare autodeterminandosi al di fuori della logica della produttività e dell’utilitarismo. In questo senso il folle diventa operaio sociale.
N. M. de Feo, Il folle come operaio sociale, in «Proto», 1992, n. 1, pp. 39-40.
Allo stato attuale dello scontro sociale e politico e del dibattito teorico sulla riforma psichiatrica, il sistema integrato della partitocrazia, delle forze di governo, delle corporazioni mediche, della Chiesa, dell’industria farmacologica, continua a rovesciare su Basaglia, che ha tradotto in legge dello Stato il primo importante momento di liberazione dei malati psichici conseguito con la chiusura dei manicomi, la responsabilità dello stato di abbandono dei malati prodotto dal sabotaggio di quella legge e di quel movimento. Impedendo, in tanti modi, di realizzare le condizioni economiche e istituzionali della loro attuazione, pure giuridicamente sancite, per bloccare, rovesciare e criminalizzare la crescita sociale autonoma del malato mentale come nuova soggettività rivoluzionaria, colpendo e demolendo la diffusione del ristretto ma combattivo fronte basagliano attraverso la rete di contropotere di autogestione sociale dei servizi di igiene mentale. Una tattica di contenimento, di blocco, di regressione, che diventa violazione e infine violenza qualunquista del potere dominante contro i piccoli segmenti di legalità democratica segnati dalle conquiste dei movimenti di massa autonomi, contro i quali le forze sociali dominanti usano il diritto illegale della forza del potere dominante, per distruggere l’emergere, per loro terrorizzante, dei pazzi liberati dalle catene manicomiali, cosi come, in settori diversi ma complementari della riproduzione sociale, delle donne liberate dalle catene familiari, dei detenuti, delle prostitute, degli anziani, dei bambini, che si liberano dalle carceri, dagli ospizi, dai bordelli, dagli ospedali, scuole e fabbriche di schiavitù sociale. Lotte sociali diffuse, che perseguono non solo valori nuovi di vita, ma anche ricchezza sociale, reddito separato del lavoro, salario sociale eguale per tutti, spostamento e riappropriazione di ricchezza sociale. E contro queste lotte, le classi dominanti rispondono per lo più su questo terreno materiale, spostandole e deformandole entro i binari distributivi del mercato, opponendo politiche economiche antiinflazionistiche, usando qui la riduzione della spesa pubblica per non dare soldi, salario sociale e potere ai malati, alle donne, ai pazzi, spostando risorse alle mafie di stato, del lavoro nero, del lavoro a domicilio e degli appalti, e/o inflazionando e svalutando denaro, salari e potere già conquistati dai settori «forti» della classe operaia. Il sabotaggio politico della legge Basaglia trova qui, nell’attacco alla spesa pubblica e, in genere, alla politica sociale, condotta in Italia, per indebolire e vincere i movimenti di liberazione sociale e per rafforzare il feudalesimo assistenziale‑clientelare-mafioso delle monarchie industriali e partitiche, tronca qui una legittimazione, o mistificazione, che lega ai più generali progetti di riforma del potere. Che ha bisogno, anche, di prescindere, nella pratica e nella teoria, la malattia, quella mentale in particolare, dalla società, l’ambiente, il territorio, la prassi, la comunicazione sociale, separando e rinserrando i malati (di mente) dagli operai, studenti, isolandoli, disarmandoli, privandoli di soldi, di potere, di scegliere, di decidere, di fare, con e contro gli altri. Colpendo in modo particolare la donna e le lotte femministe, i soggetti che guidano i processi più avanzati di liberazione sociale e sui quali si scarica l’aggressività restauratrice dell’istituzione «totale».
La trasformazione del conflitto di classe nella forma psichiatrica della malattia mentale e della follia, la sua interiorizzazione e individualizzazione nella frammentazione e marginalizzazione di soggettività isolate e separate da se stesse e dagli altri, senza strumenti e possibilità di comunicazione e di identificazione al di fuori della depressione o delle altre cifre del linguaggio psichiatrico, trovano in questi anni nella condizione femminile e nella donna rapporti e connessioni determinanti. Che sono interni al carattere sociale, di classe e sessuale-culturale, dei processi di liberazione che si svolgono anche dentro, attraverso e contro gli itinerari apparentemente schizofrenici delle patologie sociali e psichiche, della depressione, dell’angoscia, dell’infelicità senza nome, della follia lucida e di quella oscura. Lottando, spesso, dentro e contro la quotidianità anonima e rinserrante che il potere dominante cerca di risucchiare e di strozzare nella violenza normativa di valori e istituzioni artificiali (il lavoro, la famiglia, la cultura, la politica), attraverso le mille forme incantate dell’adattamento e del recupero delle false comunità e delle droghe farmacologiche. E dentro questi percorsi, la lotta di liberazione sociale non può non essere una lotta di violenza quotidiana, contro di se e contro gli altri. La politica dell’«abbandono» dei malati mentali rafforza quest’antagonismo, predisponendo la riforma psichiatrica come restaurazione dell’istituzione «totale», entrata in crisi con l’avviata chiusura dei manicomi ed oggi riprogettata attraverso nuove tecnologie del controllo sociale e politico della diversità, della divisione, frammentazione e individualizzazione e repressione dell’antagonismo sociale. Utilizzando, a questo scopo, le forze sociali e i valori ed istituzioni mobilitati attraverso i lunghi anni della politica dell’«abbandono»: la famiglia, direttamente colpita e gravata dall’assistenza e tutela del malato di mente, ne diventa il tutore legale, suo arbitro e proprietario; l’impresa sanitaria, che gestisce aziendalisticamente la salute mentale come nuovo mercato, nella generale privatizzazione economica della sanità; la clinica, l’ospedale psichiatrico, la corporazione dei medici, che curano, dirigono, formano e orientano i comportamenti disturbati del malato psichico. Organizzandone e istituzionalizzandone la dipendenza, espropriandone la soggettività, privandolo della capacità e del potere di decidere da sé e di partecipare alla cura di sé, della capacità e del potere di agire, di produrre e di vivere con e contro gli altri, le istituzioni ecc., con e attraverso i conquistati valori, le strutture organizzative e i servizi autogestiti della più avanzata psichiatria sociale.
Espropriato del corpo e dell’anima, privato, in particolare, della sua intelligenza come capacità di lavoro e di sostentamento, in una società dominata da un capitalismo che non ha più bisogno del lavoro né di eserciti di riserva industriale, il malato mentale non è più riserva del lavoro dequalificato, ma potenziale produttore di bisogni insoddisfatti e insoddisfabili, non più soggetto proletario, potenziale produttore e proletario della merce forza-lavoro; ma povero, oggetto di ghettizzazione e di consunzione, condannato a morte, insieme col detenuto a vita, al malato di aids e di cancro, drogato per sempre. Come e con questi soggetti, il malato psichico dentro e contro questa condizione, ridisegna la sua identità di folle attraverso l’espropriazione della sua identità psichica, la privazione dell’intelligenza come funzione attiva di sé rispetto a se stesso e gli altri. E la sua condizione di alienato mentale, che gli impedisce di lottare consapevolmente per la sua liberazione, condannandolo e legandolo al dolore di non essere mai se stesso e gli altri, lo costringe a prodursi e riprodursi come bisogno e soggetto di bisogni infiniti. Che né la famiglia, né l’impresa, né l’ospedale, né la corporazione dei medici, né lo stato della deregulation capitalistica possono soddisfare né delimitare, ma che devono soltanto distruggere. La sofferenza diventa il linguaggio del folle, la voce di una sua identità, non più solo individuale, ma collettiva, universale, perché legata materialmente alla natura repressa e distrutta che tuttavia chiede di liberarsi e di liberare, che produce e riproduce, se stessa, accumula e si accumula ad altre voci, altri linguaggi e pensieri di sofferenze simili e diverse, che diventano forze, capacità di resistenza, potere di lottare, anche violenza. Sviluppando una quantità nuova e diversa di produttività sociale, propria della diversità. Che esprime questa nuova identità del folle come operaio sociale.