Nicola Massimo de Feo, 01/12/2020
Materiale datato: 01/01/1990
In I detenuti come operai sociali (1990) e Il folle come operaio sociale (1992) de Feo analizza i momenti di rottura della razionalità borghese nella presa di coscienza e nelle rivendicazioni degli esclusi: i “folli” degli ormai ex manicomi e i detenuti delle carceri.
Nello specifico, in questo articolo il filosofo barese riflette sul nesso capitalistico tra mercificazione, sfruttamento e oppressione riprodotto nella sua forma più perfetta e opprimente nell’istituzione carceraria. Nella critica alla “funzione rieducativa” in quanto recupero della repressione carceraria come controllo sociale (in cui si risentono echi foucaultiani) de Feo rintraccia la rottura di questo nesso, rileggendo in quest’ottica le rivolte carcerarie in Italia e Germania degli anni Novanta che riguardarono sia detenuti politici che detenuti cosiddetti “comuni”. Proprio in quanto il carcere è il terreno più sperimentato e avanzato di distruzione dell’individuo e successiva ricostruzione di quest’ultimo in corpo docile (come direbbe il Foucault di Sorvegliare e punire), esso diventa il luogo privilegiato della lotta per l’autodeterminazione: in questo vivere sociale antagonista i detenuti diventano operai sociali, non solo nella gabbia del carcere ma anche nella società “ingabbiata” dalla cella capitalistica, nella tensione alla riappropriazione sociale del corpo.
Nell’ambito di un nuovo ciclo di lotte sociali anticapitalistiche segnate dalla nuova centralità dell’operaio sociale, sull’ambiente, nella scuola, nell’Università, nella sanità, in tutta la rete istituzionale della fabbrica sociale, l’apparenza di una normalizzazione repressiva del carcere come fronte di lotta decisivo contro le politiche di annientamento dell’individuo sociale, anche se può aver prodotto, negli ultimi tempi, un rafforzamento della falsa coscienza della vittoria dello stato e della sconfitta proletaria nelle carceri, non può cancellare, in realtà, i caratteri assunti dalle nuove forme di lotta radicate e diffuse nella quotidianità e intersoggettività dell’antagonismo carcerario, dentro e contro la violenza organizzata della giornata lavorativa e dei rapporti quotidiani di oppressione e sfruttamento corporei. Tanto più sovversive dell’ordine della detenzione quanto più irriducibili e intraducibili nel linguaggio «forte» delle rivolte tradizionali o in quello «debole» della resistenza passiva, anche se aperte e tese tra l’uno e l’altro, avendo tuttavia il loro centro strategico nel corpo la totalità aperta dei bisogni e desideri che il detenuto riproduce nella lotta e come lotta dentro e contro la normatività annientatrice dell’ordine carcerario. Queste forme di lotta totalizzanti quanto e più del totalitarismo della norma repressiva del carcere, perché coinvolgenti l’insieme delle forze e dei rapporti psicofisici e sociali del corpo, i corpi dei detenuti, ma anche delle guardie, gli spazi e i tempi della detenzione, del lavoro della soddisfazione e repressione dei bisogni, delle ore, dei giorni e delle notti piene o vuote, delle vittorie e delle sconfitte, delle cadute, delle malattie, dei suicidi, degli impazzimenti - tutto questo emergere di vita e di morte difficilmente, o quasi mai, assume il linguaggio della politica o dell’ideologia, è aldilà della riforma e della rivoluzione, perché è la distruzione reale del carcere come processo quotidiano, corporeo, realizzazione piena dell’antagonismo sociale carcerario, al di fuori e indipendentemente dalla coscienza o dalle forme di coscienza che possono esprimerlo, al di fuori e indipendentemente dei clamori delle cronache giudiziarie, dei fragori dell’informazione di massa, delle telecamere e dei pennivendoli di regime.
Il bisogno di lotte è carattere proprio della socialità antagonista. Le lotte dei detenuti, nella loro forma piena e comprensiva, sono un momento centrale di socialità e di socializzazione proletaria di tutta la società perché sono rivolte contro il carcere come carattere costitutivo dell’espropriazione, emarginazione, separatezza ed annientamento della condizione sociale antagonista dello stato di classe, del capitalismo e della sua barbarie, caratteri decisivi della criminalità, politica e comune, che accompagna e riproduce il nesso capitalistico di mercificazione, sfruttamento e d’oppressione. È per questo comprensibile che, nelle attuali condizioni sociali e storiche di forsennata aggressività capitalistica, il carcere abbia assunto il carattere ed il modello generalizzati di normatività dell’espropriazione sociale dominante su tutta la società. Soffocandone ogni capacità di movimento autonomo, dl sviluppo alternativo e di ribellione, nella e attraverso la trama filtrante della criminalizzazione civile e politica di ogni comportamento sociale e individuale irriducibile o separatosi e contrapposto all’imperativo del rendimento, del profitto e di ogni compatibilità col sistema di potere esistente. La cui conservazione e riproduzione rilegittimano e sono rilegittimate dall’organizzazione violenta degli apparati statuali e capitalistici del comando, della normatività, della produttività e della coercizione, cioè dallo stato, dall’impresa, dalle tecnologie, le forze repressive del controllo sociale e del disciplinamento, del custodialismo, dell’emarginazione e segregazione, del sorvegliare e punire e dell’annientamento della forza lavoro comunque esclusa dallo sviluppo pianificato e dalle politiche della crisi del sistema della «complessità». Che produce e riproduce il carcere come forma sociale antagonista al più alto livello, meccanismo totale di espropriazione dell’individuo sociale, di separazione e di distruzione del corpo come soggetto autonomo della socialità individuale e collettiva. Sotto il segno di una forsennata ricomposizione corporativa ed emergenziale di vecchie e nuove forze ed apparati repressivi (corpi di polizie speciali, magistratura). Che, a partire dalla legislazione dell’«emergenza», prima col regime delle carceri speciali dopo col sistema, divenuto istituzionale, del ricatto premiale (permessi e sconti di pena e privilegi vari a pentiti, delatori e dissociati di vario genere), istituito dalla recente riforma penitenziale, hanno instaurato un meccanismo perverso di pratiche e di politiche legali ed illegali di gestione carceraria flessibile, diretto al controllo individualizzato ed alla distruzione della autonomia individuale del detenuto, usando ed inserendo, nel regime carcerario normale, tecniche e funzioni delle abolite carceri speciali - isolamento, deprivazione sensoriale, divieti di contatti, di visite, di rapporti, regime della differenziazione, ricatti quotidiani sui comportamenti vitali più naturali, ecc. -, così come è stato recentemente denunciato da un gruppo di detenuti di Rebibbia in un’analisi critica della recente riforma carceraria. Che ha cancellato definitivamente ogni residua illusione o ideologia riformista di funzione rieducativa del sistema penitenziario che non sia riconducibile a quella del recupero repressivo di forze e segmenti del mondo carcerario riadattabili, attraverso l’organizzazione scientifica del controllo sociale, della manipolazione e pianificazione psicosociale, psichiatrica e genetica dei comportamenti criminali per la riproduzione diretta della forma sociale, dei ruoli autoritari, delle funzioni distruttive, persecutorie e ricattatrici della piovra carceraria. Conforme al più avanzato modello di gestione scientifica, organizzato con le tecnologie più sofisticate, prodotte in USA e RFT, dallo sviluppo criminologico delle «scienze umane» (informatica, microelettronica, ecc.). Col contributo determinante, sul piano dell’ideologia del controllo sociale e delle tecniche di manipolazione, lobotomizzazione e di annientamento dell’individuo, di personale tecnico e scientifico e di esperienze diverse della pianificazione nazista (cfr. la documentazione raccolta nei Contributi alla politica sanitaria e sociale del nazionalsocialismo, Amburgo 1984-1985, nn. 1 e 2, nei quaderni del Centro di documentazione sulla politica sociale del nazionalsocialismo, Amburgo 1985-1988, e nella rivista 1999. Zeitschrift für Sozialgeschichte des 20. und 21. Jahrhunderts, Amburgo 1986-1987).
Le recenti lotte di detenuti comuni e politici in Italia e in Germania, contro il regime della differenziazione, tra detenuti politici e comuni e tra questi stessi, in Italia contro il famigerato art. 90, per l’abolizione dei vetri divisori, i divieti di rapporti, contatti per la libertà sessuale, d’informazione, contro la censura, ecc., non hanno solo attaccato decisamente il nucleo della legislazione di emergenza ma, promuovendo un dibattito sulla democratizzazione, la pacificazione e la riflessione storico-politica collettiva sulla società italiana, hanno innescato un ineludibile processo di riappropriazione sociale del corpo che è un momento fondamentale di liberazione del proletariato che ha nel carcere una sua determinazione costitutiva. Proprio perché la repressione carceraria è il terreno più sperimentato e più avanzato, oggi, di distruzione scientifica e tecnologica dell’individuo sociale è, anche, oggettivamente e soggettivamente il fronte più avanzato di liberazione collettiva. Dove i corpi martoriati dalla dissoluzione quotidiana sfidano quotidianamente l’inutile vendetta sociale che li condanna a morirsi nell’impotenza e solitudine pianificate in cui sono precipitati. Dove la costituzione del vivere e la riappropriazione del sentire, del percepire, del respirare, del pensare, ogni ora e ogni giorno, sono il prodotto non garantito di una rivolta contro il morire quotidiano organizzato, sono una lotta fatta non solo di azioni individuali e collettive dirette a trasformare le condizioni materiali del carcere, ma anche di movimenti e contro‑movimenti di comunicazione, di sensibilizzazioni, attivazioni percettive e motorie di corpi lobotomizzati ed amputati che in questa condizione producono un nuovo modo di essere, la liberazione della disperazione. Sopravvivendo, i detenuti diventano produttori di se stessi, del proprio corpo e del corpo degli altri, operai sociali. Questa loro seconda natura è la disperazione che si fa liberazione. Che esprime una condizione sempre più diffusa del vivere sociale antagonista, non solo tra le sbarre del carcere, ma anche nella gabbia capitalista sempre più feroce ed aggressiva del nostro tempo senza pacificazione.