Nicola Massimo de Feo, 02/03/2021
Materiale datato: 01/01/1998
Ci interroghiamo sui caratteri morali della globalizzazione economica che devasta il pianeta, schiacciando sempre di più la condizione e i rapporti umani sotto il dominio del mercato mondiale, «sino nell’intimità», dice Anthony Giddins. Il governo dispotico delle imprese transnazionali sulla «globalità» è la causa principale della crisi dello Stato nazionale e della democrazia politica. Stati, partiti, chiese sindacati, scuole, culture, magistrature, mafie, sono sempre più al servizio diretto o indiretto del «mercato», che attraverso i loro apparati, istituzioni, comportamenti subordina a sé forse produttive, risorse, poteri, capacità, piegando ogni rigidità, deregolamentando comportamenti e rapporti che impediscono, ostacolano o rallentano sfruttamento, appropriazione e manipolazioni, per accrescere il profitto e intensificare la produttività, l’efficienza, la concorrenza, abbassando tutti gli indici e le misure della vita sociale e individuale, il lavoro, la produzione, il reddito, i consumi, in una corsa forsennata alla distruzione e crisi per mezzo di distruzione e crisi – di lavoro, di forze e capacità produttive, di ricchezza sociale, di intelligenza. La flessibilità non solo è una regola del mercato del lavoro, che chiede il suo adattamento alle condizioni vessatorie della merce e del capitale, ma diventa anche norma, legge e imperativo di obbedienza, che chiede e impone adattamento, rinuncia, passività di fronte alle richieste e alle esigenze totalizzanti del capitale. La devastazione morale e di ogni morale dell’individuo e della società, sino alla distruzione e rimozione della personalità, delle sue capacità e qualità, della sua autonomia e criticità, condiziona la fabbricazione e circolazione della merce, smonta e dissolve i valori individuali e collettivi, libertà, giustizia, solidarietà, eguaglianza. Nello stesso tempo, l’economia globale del capitale, mentre rimuove ogni autonomia morale di individui e società, impone sempre più la sua morale, quella degli affari, del valore di scambio come norma corruttiva universale, utilitarismo, prestazione, concorrenza, flessibilità, deregolamentazione, conformismo, successo, pragmatismo, l’appropriazione privata, la droga, i narcotraffici.
In questa condizione, Serge Latouche, in un saggio recente, La mondialisation contre l’éthique[1], mostra la crescente centralità della domanda morale e della ricerca di una riflessione etica sulla morale, nel dibattito contemporaneo sulla cultura della globalizzazione. Sia nella direzione capitalistica di una proposizione etica dell’economia industriale e postindustriale come utilitarismo universale che distrugge l’universalismo di valori, i diritti umani, la democrazia e la deontologia scientifica, sia in quella di una critica e di una lotta individuali e collettive contro la «pretesa arrogante del mercato mondiale di realizzare l’etica per mezzo dell’esclusione, l’ineguaglianza, la violenza, la corruzione». La morale, oltre che essere una merce, diventa anche una moda. La bioetica è cresciuta fra riflessione deontologica sulla scienza e comitati politico-istituzionali di gestione e cogestione degli affari, quando la tecnoscienza, la genetica e le biotecnologie hanno rotto regole e norme consolidate. L’etica economica dello sviluppo, della crescita, del lavoro, della prestazione, da Max Weber a John Rawls, guidano razionalizzazione e pianificazione verso l’ottimizzazione delle scelte razionali e dell’universalità utilitaristica delle azioni individuali[2].
«Micromega», la rivista che Paolo Flores D’Arcais dirige e che dibatte da tempo problematiche etiche e di storia della filosofia morale, ha dedicato un suo numero unico al problema «che cos’è la morale?» spingendo la ricerca in vasti settori della cultura accademica. Una voce che si affianca ad altre significative dei mass media, particolarmente sensibili alla problematica morale, come mostrano le recenti ricerche e riflessioni di Eugenio Scalfari, significativamente rivolte Alla ricerca della morale perduta (Rizzoli, Milano 1996), alla fine di impossibili sogni neoilluministi. Segni, comunque, di esigenze e risposte di segno diverso che attraverso la «cultura della globalizzazione» nell’ambito del potere dell’informazione e della comunicazione che più fortemente la caratterizza. Un’etica della comunicazione e dei mezzi di comunicazione, che, in positivo, riconosce e promuove una ricerca dell’altro, della diversità, come un’etica dell’ambiente, della politica e della biopolitica, del corpo come trascendenza (E. Lévinas), come riappropriazione del molteplice, da Nietzsche a Foucault a Deleuze e Guattari, come agire comunicativo, in Habermas, come responsabilità in Jonas, nella giustizia di Rawls, nell’epistemologia con Apel, nella dimensione della politica con Hanna Arendt e, più propriamente, nella riproposizione esistenzialista della scelta in Agnes Heller, oltre che nei nuovi e vasti filoni del femminismo e dell’ambientalismo.
E se da questi vasti e diversi settori, esigenze e direzioni di ricerche e di riflessioni, estraiamo un aspetto, che riteniamo attraversi in forme, metodo e consapevolezza diverse, le nuove riflessioni etiche, e lo chiamiamo una ricerca e una riflessione di una morale senza imperativo, verso la liberazione e costituzione dell’immanenza storico-sociale-ambientale-naturale, il corpo, la sessualità, l’eros, il linguaggio, la comunicazione, il desiderio, dobbiamo anche dire che questo emergere non può non travalicare la sfera di una disciplina tradizionalmente separata e integrata con un vecchio sistema del sapere ormai, per fortuna, perduto, la morale in quanto morale, perché con essa è tutta la realtà, il suo essere, che rifiuta una connotazione disciplinare proprio perché rifiuta l’imperativo, i suoi contenuti e le sue metodologie. In questo senso, essa è contro la globalizzazione del capitale perché è contro il totalitarismo della morale come sistema normativo che riproduce necessariamente le vecchie e nuove forme e metodologie del dispotismo.
La riflessione etica, e la morale, in positivo, sono definiti da questo carattere negativo di critica, rifiuto, sovversione di ogni normalizzazione e disciplinamento, ironia dell’esistente, allusione e liberazione del possibile. La negatività è qui il positivo, l’oltrepassamento dei totem e dei tabù della normativizzazione, che la globalizzazione restaura nell’apparenza liberistica del mercato mondiale, che riproduce sfruttamento e oppressione, imperativi e coercizioni. L’immoralismo come rifiuto della norma rende impraticabile ogni forma di globalizzazione, etica ed economica e resta la condizione di ogni forma di autonomia della persona, della società, del sapere. Contro la produzione e la riproduzione degli imperativi, dei totem e dei tabù che la globalizzazione fabbrica nella e attraverso le etiche e le politiche falsamente liberali delle deregulations. Le politiche e le etiche dell’imperativo, dei totem e dei tabù sono le etiche e le politiche del comando dell’uomo sull’uomo, dello sfruttamento e dell’oppressione: la flessibilità della forza lavoro, la riduzione del salario, del reddito, dei consumi, l’adattamento, l’utilitarismo, l’efficientismo, il produttivismo, la competizione, l’individualismo, il profitto, l’appropriazione privata. La loro condizione e il loro effetto sono la rimozione dell’uomo, il suo annientamento, attraverso l’indebolimento delle sue capacità, poteri e forze, la sua resistenza, il logoramento, la dissociazione, la dissoluzione, l’emarginazione e la marginalizzazione.
Nello stesso tempo, sono anche forti, nel e contro la globalizzazione, le lotte, le resistenze, le rivolte, sociali, politiche, sindacali, individuali, di gruppo, di caratteri, forme e metodi diversi e contrastanti, dalle lotte operaie di fabbrica a quelle sul territorio, l’ambiente, il corpo, le rivolte armate e le azioni del volontariato, di ambientalisti, femministe, di studenti, vasti settori del pubblico impiego[3]. Rinviando ad altro luogo una riflessione più elaborata su questi aspetti, ritorniamo qui, nelle brevi e limitate considerazioni di queste opere provvisorie, sul carattere morale di questa lotta ormai estesa a livello mondiale contro la globalizzazione. Ribadendo che l’alternativa etica alla rimozione-annientamento della persona umana prodotta e riprodotta dalla globalizzazione non può e non va ricercata in una facile e pericolosa restaurazione del suo integralismo etico, politico, sociale, naturale, che è una risposta regressiva e fondamentalista all’esigenza di autonomia degli individui e delle società attraversate dall’azione dissolutoria del capitale globale. La riappropriazione e l’autonomia del sé, e l’alternativa alla rimozione-annientamento dell’individuo sociale, non possono risolversi nel ritorno ad una pienezza interna, ma nello sviluppo di una pienezza nuova, la pienezza delle sue relazioni, come si esprime Marx nei Grundrisse, producendo nello sviluppo e costituendo, nelle lotte sociali, individuali, culturali,
insieme con l’universalità, l’alienazione dell’individuo da sé e dagli altri, ma anche l’universalità e l’organicità delle sue relazioni e delle sue capacità […]. Volgersi indietro a quella pienezza originaria è altrettanto ridicolo quanto credere di dover rimanere fermi a quel completo svuotamento. Al di là dell’opposizione a quel punto di vista romantico, quello borghese non è mai pervenuto, e perciò esso l’accompagnerà come opposizione legittima fino alla sua morte beata[4].
La straordinaria attualità critica di queste affermazioni, si volge contro i pericoli di chiusura e dissoluzioni ideologiche e fondamentaliste neoromantiche emergenti nella lotta morale contro la globalizzazione, non solo in certi settori tradizionalisti del volontariato, dell’ambientalismo, del femminismo, ma anche nelle politiche economiche e sociali delle sinistre istituzionali e dei sindacati, che, forse, Serge Latouche non riesce a evitare. La centralità morale della riappropriazione del sé non può riprodurre e riproporsi come vecchia e nuova forma di normalizzazione contro la deregolamentazione capitalistica, senza riprodurre e riproporsi come la stessa restaurazione imperativa a cui porta il falso liberalismo della globalizzazione. Per produrre e liberare la pienezza e la ricchezza dell’individuo sociale nelle sue relazioni, capacità e possibilità, deve muoversi e porsi come negazione, critica e lotta proprio contro ogni forma di riproduzione imperativa di norme, valori, ideali, deregolamentando la deregolazione, dissolvendo le dissolvenze, fluidificando i flussi contratti e le rigidità delle sue identità.
Giocando dentro il capitale globale e contro le sue tendenze di annientamento e di rimozione, annientando e rimuovendo ogni rigida identità, liberando, in questo abbandono maieutico dell’esistente, pienezza e ricchezza del possibile[5].
[1] S. Latouche, La mondialisation contre l’éthique, “Agone”, Marseille 1996, n. 16, pp. 163-183.
[2] S. Latouche, La mondialisation…, pp. 174 e ss.
[3] Cfr. J. Brecher-T. Costello. Contro il capitale globale. Strategie di resistenza, Feltrinelli, Milano 1996; J.Rifkin, La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano 1996; A. Negri, L’inverno è finito, Castelvecchi, Roma 1996.
[4] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, vol. I, Firenze 1968, pp. 104-105.
[5] Cfr. G. Deleuze-F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987, vol. I, l’introduzione e il cap. 3: «10.000 av. C. – La genealogia della morale»; vol. II, cap. 12: «Trattato di nomadologia: la macchina da guerra».