Autonomia operaia e militarizzazione dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich

Nicola Massimo de Feo, 28/02/2020

Materiale datato: 25/04/1975

Primo testo dell’Archivio, Autonomia operaia e militarizzazione dello Stato dalla Republica di Weimar al Terzo Reich è la relazione tenuta da N. M. de Feo ai Seminari dell’Ateneo nel trentennale della Liberazione. Di grande importanza nella svolta del suo pensiero, registra la maturità delle letture dell’autonomia operaia tedesca nei primi decenni del Novecento. Attraverso l’analisi di K. H. Roth, qui de Feo ripercorre le radici sociali, politiche ed economiche del nazi-fascismo dentro la stessa razionalità di capitale – di cui, anzi, il fascismo sembra essere la più compiuta espressione.

Manifestazione spartachista nella Repubblica di Weimar
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N. M. de Feo, Autonomia operaia e militarizzazione dello Stato dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich, in AA. VV., Matrici culturali del Fascismo, Seminari promossi dal Consiglio Regionale Pugliese e dall’Ateneo Barese nel Trentennale della Liberazione, Bari 1977, pp. 71-83.

I

La relazione di questo seminario utilizza, come documentazione ed impostazione critica, le ricerche di Karl Heinz Roth, Die «andere» Arbeiterbewegung, Trikont Verlag, München 1974 – la cui traduzione italiana è stata pubblicata in questi giorni dall’editrice Feltrinelli –, modello di storiografia militante, in cui la ricostruzione storica e la critica rivoluzionaria del presente sono strettamente legati al settarismo necessario del rigore scientifico e della militanza rivoluzionaria.

Karl Heinz Roth, ferito in uno scontro a fuoco con la polizia della RFT a Colonia l’8 maggio 1975, ed oggi barbaramente detenuto nelle carceri tedesche, è, tra gli esponenti del marxismo rivoluzionario tedesco-occidentale, quello che, forse, ha dato e dà i maggiori contributi allo studio e alla lotta dell’operaio-massa, nella e contro la continuità del rinnovato progetto capitalista di militarizzazione del comando statale, nella fabbrica e nella società.


II

L’iscrizione che i nazisti posero sul campo di Auschwitz, «Il lavoro libera» (Die Arbeit macht frei), indica un nesso, tra ideologia del lavoro e terrorismo antioperaio, che lo stato nazista ha posto consapevolmente alla base della pianificazione capitalistica. La selezione razziale, come organizzazione stratificata del mercato del lavoro di massa, diviso in settori liberi e settori coatti, è un momento del processo di «soppressione della classe operaia in quanto classe», che lo stato nazista, dopo la crisi del ’29, mette in atto, come condizione assoluta della pianificazione politica ed economica della riproduzione capitalistica[1].

Se la politica razziale dello stato nazista inizia sistematicamente i processi di stratificazione e gerarchizzazione politiche del lavoro, successivamente sviluppati con i metodi scientifici del controllo demografico, ecc. dalle «politiche del lavoro» degli stati imperialisti, le sue motivazioni più ampie – non tanto sul piano dell’ideologia di regime, quanto della funzione nelle strutture – derivano dalla necessità del capitalismo di massa di pervenire al controllo assoluto della forza-lavoro di tutta la società, per dirigere in modo consapevole, cioè pianificato, la produzione di massa, il mercato di massa e l’organizzazione di massa dello stato sociale. E questa esigenza – come dimostra anche la crisi attuale, dopo quella del ’29 –, cresce non indipendentemente, ma con e contro la crescita autonoma della coscienza e delle lotte di massa anticapitalistiche.

Sviluppo delle lotte di massa, sviluppo dell’economia e dello stato di massa – organizzazione autonoma delle lotte operaie di massa e pianificazione capitalista del comando sulla fabbrica e lo stato, si intrecciano e si sovrappongono, nella tensione di spinte e movimenti di anticipazione, che articolano incessantemente la «guerra di movimento» con la «guerra di posizione».

Nella fase di sviluppo del capitalismo di massa – o del «capitale sociale» (Marx) –, l’appropriazione capitalista del lavoro sociale dipende direttamente, oltre che dalla forza produttiva della scienza e della tecnica, anche, e fondamentalmente, dall’uso «totale» della forza-lavoro di tutta la società, cioè dell’«operaio collettivo», da cui dipendono l’intensificazione della produttività del lavoro, e quindi, come principale controtendenza alla caduta del saggio di profitto, la crescita della sua massa. Poiché è questa crescita – della produttività del lavoro e della massa di profitto –, che paga i costi sociali e politici, oltre che economici e tecnologici, di uno sviluppo a basso saggio di profitto, che, proprio perché tale, nasce da e ha bisogno, cioè produce, alta composizione «organica» e, quindi, elevati livelli di concentrazione e di centralizzazione.

Tuttavia, produzione, mercato e stato di massa, nel processo stesso di massificazione del lavoro, dei consumi e dei comportamenti che essi inducono, la massificazione delle lotte – per il salario, il reddito, la partecipazione alla direzione politica e culturale dello stato – che diventano sempre più autonome dal capitale, estendendosi a tutta la società. Di conseguenza, la crisi del comando e del meccanismo di riproduzione capitalistico chiede una ristrutturazione delle proprie articolazioni che, senza sopprimere la massificazione del lavoro, ne annulli l’emergenza politica di classe autonoma, la sua capacità di contrapporsi, nella lotta, al capitale, come emancipazione dal lavoro salariato.

Contro questo processo di contraddizioni che il capitalismo di massa sviluppa – per la prima volta, nell’età di Weimar –, e che esplode nella crisi del ’29, a livello mondiale, il capitale non ha altra scelta che la soppressione della classe operaia come classe, cioè l’insieme delle sue organizzazioni sindacali e politiche, e la sua riduzione a forza lavoro, cioè forza produttiva del capitale. Il nazismo hitleriano in Germania, il new-deal roosveltiano negli USA compiono questo passaggio per superare la lunga recessione degli anni ’30, l’uno in forma autoritaria-repressiva, l’altro in forma consensuale-democratica. Dal ’45 ad oggi, il capitale organizza un governo misto delle sue contraddizioni di classe.


III

Negli anni ’20, in Germania, il capitalismo si presenta già nella maturità delle sue strutture e delle sue contraddizioni di massa. Il movimento di «razionalizzazione» dell’economia – promosso dal Reichskuratiorium für Wirtschaftlichkeit (RKW) –, nel 1921, subito dopo gli anni della riconversione produttiva dell’economia di guerra e dello smantellamento delle strutture di pianificazione statale del ’19-’20, ripristina i meccanismi di mercato, estende le grandi concentrazioni monopolistiche private, nella progressiva integrazione-subordinazione al capitalismo USA, iniziando un processo di risanamento delle imprese, sia al livello della gestione «scientifica» aziendale, col taylorismo e il fordismo, sia al livello della composizione e qualificazione tecnica e politica del lavoro e, quindi, della classe operaia[2]. La crescita, in particolare, della meccanizzazione ed automazione degli impianti – dal ’24 finanziati dal credito USA (piano Dawes) –, scatena un attacco formidabile contro il lavoro qualificato, che porta a rovesciare la tradizionale gerarchia di fabbrica, sostituendo gli strati tradizionalmente dominanti degli operai «qualificati» (gelernte) con i nuovi «de – e non – qualificati» (un- e angelernte) che porta all’espulsione dalla fabbrica delle avanguardie comuniste e terza-internazionaliste della tradizione rivoluzionaria consiliare, luxemburghiana e leninista[3]. I nuovi metodi di «gestione scientifica dell’azienda», taylorismo e fordismo[4], rendono sistematica la massificazione del lavoro, che investe tutte le strutture della società, colpendo non solo i livelli di professionalità della classe operaia qualificata, ma anche i valori culturali e politici che essa esprime: l’autonomia della scienza «neutra» e del suo soggetto sociale, l’intellettuale «Freigeist», la «coscienza di classe» che lotta per il lavoro qualificato e lo sviluppo pianificato, propria del movimento consiliare e dell’avanguardia terza-internazionalista[5].

La coscienza tragica dell’intelligenza liberal-borghese – Spengler, Weber, Sombart, Troelsch, Th. Mann, Heidegger, Jaspers –, e di quella comunista – Lukács, Bloch –, è il prodotto più consapevole, pur nella varietà ed opposizione delle sue forme, di questo processo di espropriazione dell’essere umano sociale, ridotto a forza-lavoro del capitale, che colpisce violentemente anche la soggettività singola, i suoi valori d’uso culturali e professionali, che attraverso la razionalizzazione e il progresso tecnico, diventano valori d’uso del capitale, «capitale fisso[6]». La coscienza critica dell’alienazione, a questo livello, quale è espressa negli anni ’20 – ma non soltanto allora –, da Lukács (in Storia e coscienza di classe) e da Heidegger (in Essere e tempo), non esprime la crisi, ma lo sviluppo, quando, espropriato dalla sua autonomia soggettiva, l’«uomo stesso» diventa «capitale fisso». Sicuramente, la crisi, nonostante i tentativi, politici e ideologici, di esorcizzarla, riappare continuamente, sul piano congiunturale e/o strutturale, nell’andamento ciclico dello sviluppo intensivo ed accelerato degli anni ’20, ancora prima del ’29; prima ancora di questa data, la «disoccupazione da razionalizzazione» si qualifica come fattore centrale della «politica industriale[7]» – il che verifica ancora una volta la funzione della crisi per lo sviluppo capitalistico e, legata a questa, la funzione della coscienza alienatacome critica razionalizzatrice della ideologia borghese[8].

Ed il nesso tra il trionfo del Geist capitalistico, dello sviluppo scientifico e del progresso tecnico, della crescita del profitto e degli scambi, ecc. con l’«imbarbarimento» dell’uomo (Max Weber), con la «morte dell’uomo» di cui parlava Nietzsche, con la decadenza e l’«imbarbarimento della civiltà» di Spengler, con la «solitudine», il «vuoto» e il «deserto dell’anima» di cui parla Sombart, non sono il segno di un’implacabile «putrefazione» del capitalismo, ma di quel «pessimismo della forza», di cui parlava Nietzsche, e che si esprime nel nuovo dispotismo di massa della razionalizzazione e ristrutturazione del dominio capitalistico. «L’uomo contemporaneo – non l’uomo come tale – servì da modello all’uomo angosciato di Heidegger[9]».


IV

C’è un aspetto della crisi tedesca del ’29 che spiega un carattere, quello tendenzialmente new-dealistico che ha tentato di assumere la politica nazista di piena occupazione: l’esplosione di massa della «disoccupazione da razionalizzazione», come fenomeno centrale del crollo delle controtendenze capitalistiche alla caduta del saggio di profitto. Non il carattere sovraccumulato del capitale (Mattick), o la sproporzione tra lo sviluppo intenso della produttività e composizione organica del capitale e la ristrettezza del mercato e dell’appropriazione privata (Sweezy, Kalecki, Keynes e Galbraith), o l’insuperabile anarchia del capitale, ribadita dall’Internazionale comunista, ma la crescente ingovernabilità dell’operaio massa – il cui «adattamento» al lavoro è condizione assoluta della crescita della produttività e quindi della massa del profitto –, le sue lotte sul salario e la ristrutturazione, rovesciano gli obiettivi della «razionalizzazione», accrescendo i costi «fissi» della disoccupazione e meccanizzazione del lavoro, le diseconomie e le rigidità, burocratiche ed amministrative, che lo stato sociale sovrappone alla mobilità del capitale[10].

La «massificazione» del lavoro, anziché ridurre i costi, diventa il canale più grosso di generalizzazione delle lotte sul salario, che, dalla rivolta armata dei minatori della Ruhr, subisce, per tutti gli anni ’20, particolarmente con le lotte operaie del ’27-’29, una crescita continua, non compensata né da una crescita proporzionale della produttività, né dai tentativi di rispondere a tale tendenza con nuove misure di meccanizzazione del lavoro[11]. Dal lavoro di massa, che costituisce la struttura portante del capitalismo di massa, nasce una nuova composizione politica della lotta operaia, priva delle mediazioni ideologiche tradizionali, socialdemocratiche e comuniste, sindacaliste o consiliari, che è una pratica di rifiuto, spontaneo e/o organizzato, del lavoro ristrutturato (taylorismo e fordismo), che si lega direttamente alla grande tradizione degli Industrial Workers of the World[12]. Studiando i comportamenti di questa nuova classe operaia, Werner Sombart vede nella sua mobilità un elemento di turbamento profondo di tutto il sistema produttivo: «Le ragioni del frequente mutamento sono numerose, ma un motivo dominante è sempre ricorrente: pare che l’operaio moderno voglia alleggerire il tormento del proprio lavoro, mutando spesso posto: come il malato febbricitante che nel letto si gira ora su un fianco ora sull’altro[13]».

Da condizione di elasticità, la mobilità operaia appare qui come una nuova rigidità all’uso capitalistico della forza lavoro, diventando espressione della fuga e insubordinazione di massa contro il lavoro «razionalizzato», rivolta spontanea contro la parcellizzazione e meccanizzazione del lavoro (assenteismo, boicottaggio, rifiuto del lavoro). Contro questo malessere operaio, secondo Sombart, solo le riforme sociali, cioè un piano organico che elimini gli effetti socialmente negativi della razionalizzazione, può «riadattare» gli operai al lavoro. Per questo,

Occorrono quindi degli stimoli potenti per legare il proletariato ad un’impresa malgrado la sua congenita tendenza al cambiamento del posto di lavoro. L’esperienza insegna che in parecchi casi si riesce effettivamente a rendere stabile l’operaio: uno dei mezzi più comuni per raggiungere lo scopo consiste nel fornire l’alloggio per gli operai. Casse di mutuo soccorso sono altro mezzo per indurre l’operaio a rimanere, ed ogni sorta di altri fattori fanno il resto per provocare l’effetto voluto[14].

Nonostante lo sviluppo di un diffuso sistema di «protezionismo statale», ispirato alle concezioni moderne dello «stato sociale», di lunga tradizione nel regime guglielmino, lo saltato di Weimar, pur con la gestione socialdemocratica di una avanzata politica di riformismo sociale, non riesce a creare questi «stimoli potenti» per affezionare gli operai al lavoro di fabbrica, di cui parla Sombart.

Nel ’29-’30, la frattura tra razionalizzazione della fabbrica e pianificazione sociale esplode nella crisi. Secondo l’analisi autocritica che ne fa la stessa industria monopolistica, la «razionalizzazione» non riesce a superare e controllare le crescenti diseconomie e rigidità sociali e politiche che essa stessa ha provocato[15]. Le grandi lotte operaie per il salario e contro il lavoro, la crescita dei costi della ristrutturazione e rinnovamento degli impianti e dell’organizzazione «scientifica» del lavoro, sempre meno compensati dai livelli stazionari della produttività, accresciuta dalle rigidità monopolistiche, nazionali e internazionali dei prezzi (materie prime, ecc.), dalle rigidità amministrative e burocratiche del «protezionismo» statale sul sistema del credito, delle assicurazioni sociali, delle imposte, ecc., bloccano il funzionamento del sistema produttivo[16].


V

Questo spiega, almeno in parte, la violenza antioperaia della ristrutturazione nazista dello stato e dell’economia, che incomincia nel ’33: la distruzione del movimento operaio come organizzazione politica autonoma, la distruzione della classe operaia come classe e il tentativo del capitale di ridurla a forza-lavoro, cioè a semplice strumento di produzione, è il passaggio obbligato della saldatura capitalistica tra «razionalizzazione» della fabbrica e «pianificazione» dei comportamenti sociali, politici e culturali, tra «disciplina del lavoro» e «nuovo ordine».

La critica di Carl Schmitt ai residui di democrazia liberale del costituzionalismo weberiano di Weimar[17], libera la macchina statale dalle rigidità giuridiche e ideologiche dello stato di diritto, legittimando l’evoluzione della tradizionale repressione antioperaia dello «stato sociale» nella aperta lotta armata contro l’operaio-massa. La ristrutturazione monopolistica della grande impresa altamente concentrata, il potenziamento dell’intervento statale, come banchiere, imprenditore e forza armata del capitale – pur nella forma ideologica di un nazionalismo mitologico-populistico –, hanno come obiettivo immediato la distruzione dell’organizzazione operaia (partiti, sindacati e consigli), come condizione per superare la crisi. È questa la condizione che, saldando la disciplina di fabbrica con l’ordine sociale e politico dello stato, può consentire la ripresa produttiva, il riassorbimento della disoccupazione e lo sviluppo economico.

Allo scopo di indicarne la razionalità e progressività new-dealistiche e keynesiane, nel ’34 Sombart così delinea i tratti della nuova politica di piano di cui il nazismo si deve fare portatore:

Forti oscillazioni nella congiuntura si potranno evitare, soltanto se la attività investitrice diventerà in un certo modo stabile. Vi sono vari mezzi atti a spingere verso questa costanza il volume degli investimenti: influire sulle premesse della rendibilità (in modo particolare con la politica dello sconto e del credito), controllarle direttamente (sorveglianza sulle emissioni e sull’attività edilizia), introdurre mutamenti nei pubblici investimenti (estensione o riduzione nell’impiego di forza di lavoro, a seconda dell’attività edilizia privata). Se si riesce a mantenere il volume degli investimenti ad un livello costante, il ciclo potrà svolgersi indisturbato. Le quote dei redditi non spese nel consumo verranno investite, cosicché la quantità di denaro che si presenta sul mercato corrisponderà ai costi di produzione precedenti. L’offerta di merci si troverà quindi d’or innanzi di fronte ad una domanda sufficientemente vasta.

In tal modo all’incirca considera Keynes una futura politica della congiuntura[18].

La pianificazione nazista dell’economia, fondata su autarchia e riarmo, configura, secondo Kalecki, la prima forma storica di «ciclo politico», realizzando, con la piena occupazione garantita dalla politica di armamento, «discipline nelle fabbriche» e «nuovo ordine»: «Il sistema fascista comincia con il superamento della disoccupazione, si sviluppa in un’economia di scarsità che produce armamenti e finisce inevitabilmente nella guerra[19]». Il finanziamento dell’investimento pubblico con l’emissione statale delle «cambiali di creazione del lavoro» (Arbeitsbeschaffungswechsel), dall’esplicita connotazione socialistico-statale, si muove chiaramente nell’ottica delle moderne politiche monetarie e fiscali[20].

Se liberiamo l’analisi di Sombart dell’apologia pianificatoria del «socialismo nazionale», e quella di Kalecki dei limiti sottoconsumistici di un keynesismo neo-luxemburghiano, esse ci sembrano entrambe utili a cogliere il significato della politica nazista dal punto di vista strutturale della politica anticiclica del capitalismo contemporaneo. Meno utili, invece, ci sembrano, per comprendere il nesso tra questo carattere e la lotta dell’operaio-massa, come variabile indipendente di questa fase dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni di classe. Piena occupazione, controllo dei meccanismi finanziari del credito, ideologia del lavoro, autarchia e militarizzazione dell’apparato statale, sono risposte successive e coerenti del capitale-piano alle lotte, che inducono una progressiva ristrutturazione repressiva ed armata dello stato nel progressivo estendersi della lotta operaia, sul salario e le condizioni di lavoro, da parte delle fasce sempre più ampie di forza-lavoro de- e non-qualificata, introdotta ed usata dalla grande industria come elemento di controllo del ciclo, del mercato del lavoro, ecc. La risposta nazista all’emergenza politica dell’autonomia operaia si fa sempre più armata, quanto più diminuisce l’illusione riformista di pianificare la società con i meccanismi monetari, fiscali e «puri». La militarizzazione dell’economia è conseguente e parallela alla lotta armata dello stato contro le numerose e crescenti disaffezioni operaie al lavoro.

Se consideriamo, in particolare, gli effetti del primo piano quadriennale, elaborato dal gruppo IG-Farben, la ripresa produttiva e il riassorbimento della disoccupazione che esso produce, provoca, con la piena occupazione degli anni ’36-’37, anche, e contemporaneamente, la riesplosione delle lotte operaie, per aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro. I documenti ufficiali della Gestapo e del Ministero del Lavoro parlano di «ribellione aperta» degli operai, «scioperi», «rifiuto del lavoro e resistenza passiva[21]». La grande industria risponde con nuove misure di «razionalizzazione», già sperimentate negli anni ’20: meccanizzazione del lavoro, ammodernamento degli impianti, sostituzione di operai qualificati e politicizzati con nuova manodopera, rafforzamento delle gerarchie, della disciplina, con incentivi alla «fedeltà al lavoro», sostituzione dei vecchi «consigli di fabbrica» con i «consigli di fiduciari», nominati dai capi dell’azienda, organizzazione della propaganda e dell’ideologia del lavoro con rigida selezione dei capi reparto, capi squadra, capi del personale, per mezzo del «Fronte tedesco del Lavoro» (Deutsche Arbeitsfront, DAF) e, importante, l’integrazione politica dell’RKW, il fondamentale organismo confindustriale, con l’apparato statale, e il conseguente rafforzamento dell’attività repressiva della famosa «polizia di fabbrica», il Werkschutz[22]. Denunciando la presenza nelle fabbriche di «commandos di sabotaggio nemici» e di «spie presenti nelle nostre file», il «Memorandum sulla militarizzazione dell’economia» così definisce i compiti del Werkschutzriformato: «Ogni impresa industriale deve costruire i propri organi di sicurezza di fabbrica (servizio di sicurezza di fabbrica, polizia di fabbrica, portieri, guardiani) in modo tale da potersi efficacemente difendere con le armi contro attacchi di sorpresa e impedire l’aggressione di forze nemiche finché non sopraggiungano forze dall’esterno[23]». Un documento della Gestapo, in particolare, individua come «sabotaggio» le forme di rifiuto del lavoro molto sviluppate in modo particolare nelle fabbriche statalizzate:

Anche ogni azione e omissione intenzionale che turba l’andamento della produzione, effettuata per motivi personali, è sabotaggio. Rientrano in questo ambito (…) il lavoro rallentato o sbagliato, la mancanza di puntualità, l’assentarsi dal luogo di lavoro, la simulazione di malattie, le ferite che uno si procura volontariamente, la disobbedienza ai superiori di fabbrica, il rifiuto del lavoro, il disfattismo, il turbamento intenzionale delle maestranze con la propaganda, la diffusione di voci false, la sedizione e l’incitamento allo sciopero ecc.[24].

Le variabili del «ciclo politico» sono evidenti: la ripresa dello sviluppo è direttamente costruita sulla sistematica repressione e soppressione dell’autonomia politica operaia su e contro il lavoro salariato. L’ideologia del lavoro e della cogestione di massa dello sviluppo pianificato, che era stata la linea dei partiti socialdemocratico e comunista negli anni ’20, in Germania, e nella Russia del «socialismo in un paese solo», viene definitivamente sconfitta, appropriata dal capitale ed usata su e contro la classe operaia, per distruggere la sua autonomia di classe come l’elemento di anarchia che impedisce la pianificazione dello sviluppo e il superamento della crisi. Il nazismo diventa così il primo regime armato del capitale che usa il socialismo delle masse, la loro aspirazione al lavoro giusto e libero, per sopprimere l’esistenza politica della classe operaia, per colpire il rifiuto del lavoro salariato dell’operaio-massa. Lo stato armato nazista stabilizza la crisi, usandola contro l’emergenza di classe operaia contro il lavoro forzato della fabbrica razionalizzata. L’autarchia e il riarmo, come principali obiettivi della pianificazione, esprimono la politica antioperaia del capitale armato contro la rivoluzione proletaria, estendendo questo regime a tutta la società. Lo stato diventa il braccio armato «nazionale» del «socialismo bianco» di Henry Ford[25], appropriandosi dell’ideologia socialista del lavoro, per pianificare militarmente i comportamenti sociali dentro e fuori la fabbrica, utilizzando l’esigenza di partecipazione delle masse alla direzione politica dello stato, per militarizzare il comando, nella fabbrica e nella società, rafforzando le gerarchie e il dominio sul lavoro vivo. Si costruisce così il primo regime di socialismo armato del capitale.


VI

Questa strategia di sviluppo, che riesce a saldare la razionalizzazione del lavoro con la pianificazione della società, per mezzo della militarizzazione del «cervello sociale» appropriato dal capitale che si sviluppa dal regime di Weimar e dal Terzo Reich, continua, in forma più consensuale e meno coercitiva, ma altrettanto e forse più scientificamente violenta e armata, attraverso il regime di Adenauer, nella Socialdemocrazia di Willy Brandt e nell’imperialismo USA. Superato e rigettato come ideologia nazional-populista e mitologia della razza germanica, il nazismo è diventato parte organica dello stato sociale del capitalismo di massa pianificato, nei paesi capitalistici che, dopo il ’45, hanno usato e usano i metodi di pianificazione per controllare le lotte dell’operaio-massa, orientando le diverse, e spesso apparentemente opposte, aggregazioni sociali e ideologie neo-corporative in direzione antioperaia. Il razzismo, così, epurato dalla mitologia hitleriana, è diventato struttura permanente della stratificazione e del controllo scientifico perseguito dall’imperialismo sul mercato mondiale della forza di lavoro; l’apparto militare della violenza antioperaia dello stato nazista, in cui la «polizia di fabbrica» è integrata con l’apparato militare della repressione statale, funziona ancora, e non solo nella RFT, come principale strumento di «politica del lavoro» e di razionalizzazione aziendale, non solo alla Ford di Detroit e di Colonia, ma anche alla FIAT di Torino; le funzioni speciali dei servizi segreti, dalla CIA al SID, [sono quelle] di garantire la gestione diretta statale del terrorismo antioperaio, per controllare e colpire le punte più avanzate delle lotte di massa; il neo-fascismo, come arma di riserva dei corpi separato dello stato costituzionale antifascista, non è residuo del passato, ma funzione organica dello stato, come espressione del dominio e della violenza armata sul lavoro vivo; lo sviluppo «nuovo» di settori «speciali» del terrorismo statale – dagli «uffici speciali» dei servizi segreti, ai capi nelle gerarchie di fabbrica, ai corpi anti-guerriglia e anti-terrorismo, dalle leggi liberticide della Germania demo-cristiana del ’68 al Berufsverbot di quella socialdemocratica del ’75, alla «legge Reale» sulla «licenza di uccidere», concessa in Italia ai corpi armati dello Stato, – questa crescita delle articolazioni del comando politico-statale porta la militarizzazione degli apparati repressivi statali a trovare nuove forme di legittimazione e ideologie, quali nuove aggregazioni neo-corporative anelanti alla pace sociale, alla difesa del lavoro salariato, alla lotta contro il sabotaggio e il terrorismo operaio, ecc., alla ricerca di solidarietà e collaborazione di massa per la difesa dell’ordine e del lavoro, alla criminalizzazione delle lotte, ecc.

Questa continuità non ideologica, ma politica e sociale, tra nazi-fascismo e stato capitalista di massa, è, ancora oggi, prodotto di livelli specifici a cui si è evoluto lo scontro di classe nel mondo capitalista degli ultimi quindici anni ed assestatisi, ormai, all’interno delle pieghe ed articolazioni più profonde, che sono apparenti e nascoste, della militarizzazione del comando politico-statale del capitale-piano, della sua crisi attuale e del potere operaio di massa, in e contro di esso cresciuto.

Note

[1] Cfr. S. Bologna, Nazionalsocialismo, in Scienze politiche I, Enciclopedia Fisher, Milano 1970, pp. 241-244.

[2] Cfr. M. Cacciari, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917-1921, introduzione a G. Lukács, “Kommunismus” 1920-1921, Padova 1972, pp. 7-66; S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, in Operai e stato, Milano 1972, oltre al già indicato K. H. Roth, L’altro movimento operaio, Milano 1976, pp.78-96. Fondato nel ’21, l’RKW ha celebrato i 50 anni della sua attività di direzione ed organizzazione politico-economica, raccogliendo analisi e testimonianze dei suoi collaboratori vecchi e nuovi (imprenditori, sindacalisti, singole personalità, ecc.), nel volume Produktivität und Rationalisierung, Frankfurt a. M. 1971.

[3] S. Bologna, Composizione di classe, cit.; M. Cacciari, cit., pp.8-9.

[4] Un’analisi ampia dell’introduzione del taylorismo e fordismo, e del dibattito sviluppatosi in Germania negli anni ’20, si trova nella ricerca di Kurt Kleinschmidt, Wissenschaftliche Betriebsführung und Fliessarbeit. Von Fr. W. Taylor zu Henry Ford, Inaug.-Dissertation, Leipzig 1932. Sull’ideologia produttivistica del taylorismo nell’età di Weimar, è importante il saggio di C. S. Maier, Tra taylorismo e tecnocrazia: le ideologie europee e la visione della produttività industriale negli anni ’20, in “Quaderni del progetto” 1, Padova 1974, pp.80-122.

[5] M. Cacciari, op. cit., p.56.

[6] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, Firenze 1970, pp. 400 e sgg.

[7] Il tema è dibattuto, con un’ampia analisi sulla disoccupazione nei principali settori industriali, organizzata dall’“Associazione di politica sociale”, raccolta in “Schriften des Vereins für Sozialpolitik”, n.185/I, II, III, München und Leipzig 1932.

[8] Cfr. M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in “Contropiano”, 1969, I, pp.131-200. Il nesso pensiero negativo-ristrutturazione-razionalizzazione capitalistica è più ampiamente sviluppato nel saggio dello stesso: Krisis, Milano 1976. Cfr. anche il nostro saggio Analisi e critica dell’alienazione in Heidegger, introduzione a M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, Firenze 1974, pp. V-XXV.

[9] W. Sombart, Il socialismo tedesco, Firenze 1941, p.54.

[10] A. Rüstow, Die Arbeitslosigkeit in der deutschen Maschinenindustrie, in “Schriften des Vereins für Sozialpolitk”, n.185/III, München und Leipzig 1933, pp.80-81 e sgg. L’A., studiando le onde cicliche della congiuntura degli anni ’20, ricostruisce le ragioni “congiunturali” e “strutturali” della “disoccupazione da razionalizzazione”, in particolare per il settore meccanico, additando nelle rigidità politiche e sociali dello stato “protezionista” una delle cause di fondo della crescente rigidità capitalistica.

[11] Questo nesso circolare tra razionalizzazione e crescita dei costi “salariali” e “fissi” dell’industria tedesca è analizzato, in modo particolare per il settore dell’auto, da H. Ludwig, in Die Arbeitslosigkeit in der deutschen Autonomobilindustrie, in “Schriften des Vereins für Sozialpolitk”, 1932/II, pp.121-154.

[12] Cfr. Gli I. W. W. e il movimento operaio americano, Napoli 1975.

[13] W. Sombart, Il capitalismo moderno, Torino 1967, p.706.

[14] W. Sombart, cit., pp.706-707.

[15] A. Rüstow, loc. sit.

[16] L. von Mises, Die Ursachen der Wirtschaftskrise, Tübingen 1931. L’analisi critica di von Mises, che spiega la crisi come prodotto della rigidità del sistema economico e della socializzazione dello stato, proprio perché esprime il punto di vista del capitale in modo diretto, è più stimolante delle più “totalizzanti” interpretazioni sottoconsumiste, che prevalgono nello studio di C. Bettelheim, L’economia della Germania nazista, Milano 1973, pp.27 e sgg., così come nella analisi di J. K. Galbraith, Il grande crollo, Torino 1972, pp.186 e sgg.

[17] C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna 1972, pp.289-292.

[18] W. Sombart, Il socialismo tedesco, cit., p.370.

[19] M. Kalecki, Gli aspetti politici della piena occupazione (1943), in Sulla dinamica dell’economia capitalistica, Torino 1965, p.170.

[20] M. Kalecki, La stimolazione della congiuntura della Germania hitleriana (1935), in Sul capitalismo contemporaneo, Roma 1975, pp.3-11.

[21] K. H. Roth, E. Behrens, Il New Deal tedesco, in L’altro movimento operaio, cit., pp.101 e sgg.

[22] K. H. Roth, E. Behrens, op. cit., pp.140 e sgg. Una scheda ampia ed essenziale sul Werkschutz, la sua storia e la sua funzione attuale nella politica repressiva della RFT contro le lotte operaie, si trova in “Controinformazione”, n.1-2, pp. 42-45.

[23] K. H. Roth, E. Behrens, op. cit., p.120.

[24] K. H. Roth, E. Behrens, op. cit., p.122.

[25] L’espressione è di F. Gottl-Ottilienfeld, autore di un’ampia analisi su economia e tecnologia (Wirtschaft und Technik, Tübingen 1914). Nel fordismo, egli vede una nuova concezione socialista dell’economia, che avrebbe potuto rispondere adeguatamente alle aspettative sociali, oltre che tecniche ed economiche della società tedesca degli anni ’20.

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