Analisi e critica dell'alienazione in Heidegger

Nicola Massimo de Feo, 15/05/2020

Materiale datato: 01/01/1974

Analisi e critica dell’alienazione in Heidegger è l’introduzione di N. M. de Feo alla prima edizione della sua traduzione di Fenomenologia e teologia di M. Heidegger (1974).
Il testo cerca di percorrere in lungo e in largo la produzione teorica di Heidegger, seguendo le mutazioni storico-culturali tedesche ed europee.
De Feo mette qui in relazione la riproposizione heideggeriana della domanda sull’Essere e la crisi economica e sociale della borghesia attraverso il prisma operaista del ciclo sviluppo-crisi-ristrutturazione. La domanda sull’essere appare così una pratica attraverso cui il pensiero borghese cerca di ricomporre la sua realtà dentro la crisi (il “negativo”), da cui pianificare lo sviluppo del nuovo capitalismo.

M. Heidegger
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N. M. de Feo, Analisi e critica dell’alienazione in Heidegger, Introduzione alla prima edizione di M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, tr. it. de Feo, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. V-XXV.

1. La pubblicazione, in un unico volumetto, di questi due scritti heideggeriani, Fenomenologia e teologia, del 1927, e Alcune indicazioni su aspetti fondamentali del dibattito teologico su “Il problema di un pensiero e di un linguaggio non obiettivanti nella teologia attuale”, del 1964, ripropone, oggi, la questione teorica, legata al significato della “svolta” (Kehre) del pensiero heideggeriano, del rapporto tra il problema del “senso dell’essere in generale” e l’esigenza della “comprensione dell’essere in quanto essere”[1]. La discussione di questo problema trova nella pubblicazione dei due scritti heideggeriani indicati, un punto di riferimento preciso, non solo per individuare i fondamentali nessi teorici tra le componenti culturali apparentemente diverse del “primo” e del “secondo” Heidegger –– filosofia, scienza e teologia cristiana ––, ma anche per scoprire, entro tali nessi, le connessioni reali, storiche, sociali e ideologiche del pensiero heideggeriano.
L’esigenza di “provocare una ripresa della riflessione sul carattere per molti aspetti problematico della cristianità del cristianesimo e della sua teologia, ma anche sul valore problematico della filosofia e, in particolare, su ciò che viene qui esposto”[2], è il problema non solo di questi due scritti, ma anche di tutto l’itinerario teorico di Heidegger e serve già a definire il significato del nesso tra la “ripetizione del problema dell’essere”, proposta nel 1927 (Sein und Zeit), e il successivo recupero, attraverso la poesia, della dimensione di “profondità” dell’“essere”. La “ritualizzazione” del richiamo di Nietzsche al “magnifico Hölderlin” e della definizione che Franz Overbeck dà, contemporaneamente, del cristianesimo come “attesa della dissoluzione finale”[3], spiega ancora di più la connessione tra ricerca dell’“originario” e riproposizione del pensiero come “riflessione sull’essere”, che è l’esigenza dominante della Seinsfrage, dal primo progetto della “distruzione della storia dell’ontologia”, sino alla più recente riflessione sul “nichilismo europeo” come “determinazione storico-ontologica” della condizione umana. Il che vuol dire ridare alla poesia, alla religione e alla filosofia quel ruolo di centralità nel “disvelamento storico-epocale” dell’“essere dell’esistenza” che l’“uomo moderno”, alienato nel “pensiero calcolatorio”, nel dominio della “pianificazione”, della “manipolazione” e della “tecnica”, sembra abbia perduto. Se il trionfo dell’“universale meccanizzazione” ha esteso alla totalità della condizione umana, ala pensiero ed al linguaggio, il modello logico –– l’“oggettività” –– e la specificazione storica –– la “società industriale” e la “civiltà di massa” –– della scienza e della tecnica moderne, la disalienazione dell’uomo sembra dipendere, ora, secondo Heidegger, dalla capacità interiore della riflessione di liberarsi dal dominio della scienza e della “razionalità calcolatoria”.

2. Se ricostruiamo le radici storiche e culturali della proposta teorica heideggeriana, a partire, in particolare, dalla motivazione “esistenziale” della Seinsfrage in Sein und Zeit[4], sino al retroterra storico-culturale della crisi dell’ideologis liberal-storicistica durante gli anni dela Repubblica di Weimar, ritroviamo, allora, l’importanza fondamentale della condizione di crisi ed alienazione in cui avviene lo sviluppo del capitalismo moderno, per comprendere il significato storico e teorico del pensiero heideggeriano[5].
La “ripetizione del problema dell’essere”, come “problema del senso dell’essere in generale”, dice Heidegger nel ’27, nasce da un “enigma”, dal fatto che la “normale comprensione dimostra solo l’incomprensione”[6], che l’“incomprensibilità” della realtà, cose e uomini, rivela una mancanza di senso, cioè la “nullità”, dell’“Esserci”, che è la struttura dominante della “quotidianità” (la “chiacchiera”), fondamento costitutivo del Dasein, contenuto specifico, e storicamente determinato, di quell’“orizzonte temporale” entro il quale deve essere “compreso” il “senso dell’essere in generale”[7].
La traduzione “esistenzial-ontologica” di questo “enigma” dell’“incomprensione”, da cui nasce la Seinsfrage, traveste i suoi contenuti materiali, la crisi e l’alienazione degli anni ’20, nelle categorie trascendentali dell’“analitica esistenziale”. Questa rinnovata forma dell’ideologia borghese, che si sviluppa nella fase decisiva di restaurazione e consolidamento del capitalismo mondiale e dell’imperialismo dopo il “biennio rosso”, sorge come prodotto e come uso teorico della crisi, all’inizio di una fase di sviluppo dell’ideologia borghese e dello sviluppo capitalistico, che si definisce nella crisi e usa la crisi per organizzare lo sviluppo. Dietro l’“enigma” dell’“incomprensibilità” heideggeriana del reale, c’è la conclusione nichilistica della “tragedia del liberalismo tedesco”[8] che, nel piano della restaurazione antioperaia degli anni ’20, non è più solo l’espressione della dissoluzione estrema della civiltà liberal-borghese, ma anche, nello stesso tempo, il primo tentativo consapevole del capitale mondiale di usare la crisi economica e l’annichilimento della borghesia per dare alla sua egemonia di classe una base pratica e teorica alternativa, o nuova, rispetto alla tradizione liberale e storicistica classica. Riproponendo la “ripetizione del problema dell’essere” come recupero, al livello della coscienza trascendentale, del “senso” della “normale incomprensibilità” del reale, Heidegger risponde all’esigenza teorica di restaurare, sulla base di una radicale critica della tradizione filosofica occidentale (la “distruzione della storia dell’ontologia”), una nuova sintesi del reale, che ne ricomponga la frammentazione che lo sviluppo delle scienze, dirette dalla ragione formale e dal pensiero analitico, ha prodotto. La “crisi dei fondamenti delle scienze”, che dà una precisa determinazione storica e culturale all’“enigma” heideggeriano dell’“incomprensibilità”, è così spiegata in una conferenza del ’29:

i campi delle varie scienze sono molto lontani l’uno dall’altro. Il modo di trattare i loro oggetti è fondamentalmente diverso. Questa dispersa molteplicità di discipline viene oggi tenuta insieme soltanto dall’organizzazione tecnica di Università e Facoltà, e ha un significato non solo nella finalità pratica delle discipline particolari. Ma le scienze non sono ormai più radicate nella loro essenza fondamentale[9].

Al recupero di questa “essenza”, che è il “problema del senso dell’essere in generale”, è orientato il compito della Seinsfrage, che deve trovare, nell’esistenza, nell’“orizzonte temporale” del “problema dell’essere”, le “condizioni ontologico-esistenziali” della “comprensione totale” dell’“essere dell’esserci”, la ricomposizione dell’unità e totalità (l’“essenza”) della “dispersa molteplicità” e “incomprensibilità” della cultura borghese.
Questa nuova fase dell’“ideologia tedesca”, abbiamo detto, è legata alla nuova forma storica e politica che assume la riproduzione del capitale dopo il soffocamento della rivoluzione tedesca del ’18-’19, la Costituzione di Weimar, la caduta dell’ipotesi terzainternazionalista della “rivoluzione mondiale” e del “crollo” del capitalismo. La restaurazione dell’egemonia borghese su tutta la società, dopo la caduta del Reich guglielmino, particolarmente dopo il ’23, si sviluppa decisamente col primo tentativo organico del capitale di razionalizzare e ristrutturare il suo dominio e le sue alleanze di classe. Durante gli anni di maggior consolidamento della restaurazione di Weimar, gli anni del governo di Stresemann (1924-28), la grande industria tedesca riesce a ristrutturare produzione e mercati, razionalizzando l’impresa con la massiccia estensione della meccanizzazione e massificazione della produzione. Matura, cioè, un nuovo tipo di strategia dello sviluppo, che tende ad utilizzare direttamente e coscientemente, attraverso gli organi del nuovo Stato “democratico” e “repubblicano” di Weimar, gli aspetti di crisi (inflazione, deflazione, ristrutturazione, massificazione della produzione, ecc.) inerenti alla nuova razionalizzazione del ciclo (organizzazione scientifica del lavoro, parcellizzazione e massificazione del lavoro), al fine di consolidare ed estendere il controllo politico sullo sviluppo delle forze produttive, in particolare della classe operaia[10]. Questa strategia muove dal riconoscimento della ineluttabilità della crisi come elemento e condizione della riproduzione allargata del ciclo capitalistico, e tende ad usare questa ineluttabilità per programmare politicamente lo sviluppo. L’“organizzazione scientifica del lavoro” (taylorismo, fordismo ecc.) estende la “razionalità formale” di scienza e tecnica alla forza-lavoro, subordinandola alla macchina e al suo uso capitalistico, frantumandone l’unità di classe all’interno della atomizzazione, parcellizzazione e massificazione della razionalizzata divisione sociale del lavoro. Nella restaurazione degli anni ’20, questa razionalizzazione del ciclo di riproduzione sociale del capitale diventa lo strumento non solo tecnico ed economico, ma anche politico di formazione-appropriazione del plusvalore; essa non solo distrugge la forma classica del ciclo del capitale, ma anche, contemporaneamente, modifica radicalmente la composizione tecnica, produttiva e politica della classe operaia, con l’estrema parcellizzazione della forza-lavoro, la distruzione della sua professionalità, supporto sociale e produttivo della tradizionale avanguardia comunista[11].
Se l’“enigma” dell’heideggeriana “incomprensibilità” del reale, che già attraverso la “crisi dei fondamenti” delle scienze acquista una determinazione storica, viene ulteriormente specificato attraverso la forma parcellizzata che lo sviluppo capitalistico imprime all’essere sociale, ma che la Seinsfrage lascia nascosta, alle spalle della struttura di “nullità”, costitutiva del Dasein, la soluzione heideggeriana all’“enigma” definisce una “comprensione dell’esistenza” adeguata alla nuova struttura della società. In questo senso, la Seinsfrage non elimina l’“insignificanza”, o “inautenticità” (la “chiacchiera”), come dimensione fondamentale dell’“esserci” ma coglie in essa proprio la costituzione “ontologica” del Dasein, definendo essa proprio quell’“orizzonte temporale “, o “senso”, del “problema dell’essere” che, nell’ulteriore sviluppo del pensiero heideggeriano, si identifica con “nullità”, o “differenza ontologica” del Sein[12]. Questo vuol dire che non solo la Seinsfrage non spiega la reale matrice storico-sociale dell’“enigma” dell’“incomprensibilità”, anche se la coglie al livello dell’astrazione trascendentale dell’epoché fenomenologico-esistenziale –– la Jemeinigkeit[13] ––, ma anche il fatto, teoricamente rilevante, che essa fissa, sullo stesso piano dell’astrazione trascendentale, la stessa comprensione astratta della disgregazione-parcellizzazione propria dell’uso capitalistico della crisi, come “fondamento” dell’“essere”. La negatività dell’esistenza, in tutte le determinazioni che essa assume rispetto alla riduzione trascendentale-esistenziale della Seinsfrage, diventa l’“orizzonte temporale”, il “non” della “differenza ontologica”, da cui diventa comprensibile la “totalità originaria”, il “fondamento abissale”, l’“unità originaria” dell’“essere dell’esserci”. La cura, la colpa, la paura, l’angoscia, sono le progressive determinazioni di questa “totalità originaria” che è la nuova sintesi teorica che la coscienza borghese contrappone come alternative alla totalizzazione rivoluzionaria dell’ordine sociale esistente che il comunismo rappresenta di fronte alla crisi del capitalismo mondiale. La Seinsfrage heideggeriana dimostra, in questo modo, la rinnovata capacità del pensiero borghese di ricomporre una nuova comprensione unitaria della condizione reale, oggettivamente scissa e parcellizzata dalla esistenza umana all’interno della nuova forma di sviluppo capitalistico, che usa la crisi, la disgregazione e il “negativo” per pianificare il proprio sviluppo, ricostruendo e proponendo una nuova dimensione della “storicità” in alternativa allo storicismo classico, a partire da una riflessione specifica, anche se astratta, sulla dimensione di “nullità”, o di crisi, dello sviluppo. Se negli anni ’20 la cultura borghese di Weimar, entro la riflessione “nazionale” sulla Schuldfrage della sconfitta militare, approfondisce ed esaspera le ragioni storiche, culturali, etiche e politiche del “crollo” di liberalismo e storicismo, Heidegger, partendo da questo ripiegamento interiore della coscienza borghese in se stessa, cogliendo l’elemento “fondante” di questa crisi storica ed interiore della borghesia, ne fa il punto di partenza, il nuovo punto di vista per un nuovo “cominciamento” della storia della coscienza borghese. La rinascita del pensiero di Kierkegaard in Jaspers, lo sbocco religioso del relativismo sociologico e dello storicismo laico in Troeltsch, la diagnosi di Spengler sulla “nuova barbarie” e sul “tramonto dell’Occidente”, la riflessione problematica di Thomas Mann (cfr. La montagna incantata), l’ideologia reazionaria della “Konservative Revolution” di Ernst Jünger, il relativismo di Max Scheler[14] e, Ernst Bloch, sullo sfondo del riflusso della “rivoluzione mondiale”, in cui Lukács e Korsch avevano riproposto il compito della filosofia come rivoluzione, questi elementi generali dello sviluppo culturale dell’età di Weimar chiariscono maggiormente il contesto storico e culturale immediato della riflessione heideggeriana sul nuovo “cominciamento” della Seinsfrage. Questo spiega anche il significato particolare che la formazione e i primi studi teologici e religiosi hanno nello sviluppo del pensiero di Heidegger, nel quale l’antropologia cristiana, prima attraverso Kierkegaard, dopo con Nietzsche, diviene elemento decisivo della nuova ricomposizione della visione del mondo e della coscienza borghese.

Particolare della Bocca della Verità (Roma)

3. La necessità di esprimere consapevolmente ed esplicitamente il significato politico della “ripetizione” del problema filosofico dell’essere, attraverso la Seinsfrage, porta Heidegger a scrivere prima, nel ’33, il famoso discorso per l’assunzione del rettorato all’Università di Freiburg Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, seguito da altri interventi minori di carattere politico e culturale sull’adesione al nazionalsocialismo[15], a riprendere poi, contemporaneamente alla Kehre nell’impostazione teorica della Seinsfrage, l’approfondimento del suo significato storico e politico, particolarmente durante i corsi universitari del 1935, pubblicati successivamente nel 1953 nel volume Einführung in die Metaphysik.
In questo scritto la “domanda sull’essere” è già una domanda storica e politica, pur mantenendosi al livello dell’astrazione – riduzione fenomenologico-esistenziale. Dietro la “domanda fondamentale” (Grundfrage) (“perché l’essente e non piuttosto il nulla?”) della metafisica, c’è, infatti, una “domanda preliminare” (Vor-frage) (“Che ne è dell’essere?”). La risposta a questa domanda, che pone in discussione il problema stesso dell’essere, cioè la stessa esistenza e possibilità della Seinsfrage[16], è radicalmente storica, perché va ritrovata nella crisi della “civiltà occidentale”, che Heidegger chiama “oscuramento del mondo”, “fuga dagli dèi”, “distruzione della terra”, “massificazione dell’uomo”, “prevalere della mediocrità”:

Quando si parla di oscuramento del mondo, che cosa intendiamo con ‘mondo’? Mondo si deve intendere sempre in senso spirituale. L’animale non ha mondo, nemmeno un mondo ambiente. L’oscuramento del mondo implica un depotenziamento dello spirito, la sua decomposizione, consunzione, rimozione, il suo fraintendimento. Vedremo ora di illustrare questo depotenziamento dello spirito secondo una determinata prospettiva, e quella, precisamente, del suo fraintendimento. Come abbiamo detto, l’Europa si trova presa in una morsa costituita dalla Russia e dall’America, le quali, da un punto di vista metafisico, vale a dire per quanto riguarda il loro carattere mondano e il rispettivo rapporto allo spirito, si equivalgono. La situazione dell’Europa risulta tanto più fatale e senza rimedio in quanto il depotenziamento dello spirito proviene da lei stessa; infatti, anche se è stato preparato in passato, esso si è definitivamente verificato a partire dalla condizione spirituale a partire dalla prima metà del sec. XIX. Presso noi tedeschi si è verificato, in quel tempo, ciò che si suole brevemente designare come la ‘dissoluzione dell’idealismo tedesco’. Formula che rappresenta, per così dire, lo scudo protettivo che cela e ricopre la già iniziata decadenza dello spirito, la disintegrazione delle forze spirituali, la resistenza contro ogni domandare originario concernente i fondamenti e contro l’impiego di un tale domandare. Ma non è stato l’idealismo tedesco a cadere in rovina, bensì l’epoca stessa: non abbastanza forte per mantenersi all’altezza della grandiosità, dell’ampiezza e dell’autenticità originaria di questo mondo dello spirito, per realizzarlo, in altri termini, veramente; il che significa tutt’altro che limitarsi alla semplice applicazione di formule o idee. L’esserci ha preso a scivolare in un mondo privo di quella profondità dalla quale l’essenziale sempre viene e ritorna all’uomo e gli si propone spingendolo ad una superiorità che gli dà una posizione da cui agire. Tutto viene così ridotto al medesimo livello, su di uno stesso piano, simile alla superficie appannata di uno specchio che non riflette e non rimanda più alcuna immagine. La dimensione predominante è divenuta quella dell’estensione e del numero. Il potere non designa più la capacità né la generosità derivanti da esuberanza e da padronanza delle proprie forze, ma solo una certa routine che ognuno può apprendere macchinalmente con un certo sforzo e non senza dispendio di mezzi. Tutto questo si è andata ulteriormente aggravando, sia in America che in Russia, fino all’illimitato pressapochismo di ciò che risulta sempre uguale e indifferente, al punto che questo puro quantitativo si è trasformato in una sorta di qualità. In questi paesi, la mediocrità, l’indifferentismo, non sono più qualcosa privo d’importanza o miserabilmente vuoto, ma rappresentano il predominio e l’invadenza di cose che attaccando ogni valore, ogni spiritualità capace di misurarsi col mondo, la distruggono e la fanno passare per menzogna. Si tratta dell’invadenza di ciò che chiamiamo il demoniaco (nel senso del malvolere distruggitore). L’incremento di questo demoniaco, che fa tutt’uno col crescente disorientamento e con la crescente insicurezza dell’Europa nei suoi confronti e in se stessa, si manifesta in molti modi. Uno è quello del depotenziamento dello spirito nel senso di un fraintendimento di esso: si tratta di un avvenimento in mezzo al quale ancor oggi ci troviamo[17].

Questa analisi, che spiega la crisi col depotenziamento dello spirito, nella confluenza acritica di ideologia borghese e relativismo sociologico, dà alla Seinsfrage il compito di ricomporre una coscienza “originaria” dell’essere con e al di là della tecnica, della scienza e dell’industria, di cui riflette la natura reificante, fissandola nell’astrazione ontologica della sua ineluttabilità. Citando Götzendämmerung di Nietzsche, Heidegger riafferma la “nullità” costitutiva dell’“essere”, “parola vuota”, come dice Nietzsche, “l’ultima esaltazione di una realtà che si dissolve”. Ma, nello stesso tempo, Heidegger vuole “superare” il nichilismo di Nietzsche, il quale “è egli stesso una vittima di un lungo errore e di una lunga dimenticanza… in quanto vittima, la testimonianza non ancora riconosciuta di una nuova esigenza?”[18]. Il “rovesciamento di tutti i valori”, è il tema dominante della nietzschiana Götzendämmerung, da cui nasce una nuova domanda che reimposta la ricerca sull’essere come ricerca del suo “senso”, come la Vor-frage storicamente determinata dalla crisi della civiltà occidentale: “Una domanda assai semplice e anche, certamente, assai inutile; e nondimeno una domanda, anzi la domanda, quella che chiede: ‘L’essere è una semplice parola e il suo significato evanescente, oppure esso costituisce il destino spirituale dell’Occidente?’”[19]. Questa diventa allora la domanda storica e politica sul “destino spirituale dell’Occidente”; l’“inguaribile accecamento” che si è abbattuto sull’Europa, “sempre sul punto di pugnalarsi da se stessa”, costretta “oggi nella morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro” si è così esteso a tutto il “destino spirituale dell’essere”, ma ha la sua radice storica e politica nella “Russia” e nell’“America”, in quanto “Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato”. Il “ripotenziamento dello spirito” è l’obiettivo e il contenuto di questa Konservative Revolution, secondo la formula di Ernst Jünger, che è l’heideggeriana riproblematizzazione del “destino dell’essere”, la lotta metafisica tra l’Europa, incarnazione del “destino spirituale dell’essere” e Russia e America, attori metafisici del “demoniaco” e della “tecnica scatenata”, dell’“uomo massificato”:

Siamo presi nella morsa. Il nostro popolo, il popolo tedesco, in quanto collocato nel mezzo, subisce la pressione più forte della morsa; esso, che è il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto, è insieme il popolo metafisico per eccellenza. Da questa sua caratteristica, di cui siamo certi, discende d’altronde che questo popolo potrà forgiarsi un destino solo se esso sarà prima capace di provocare in se stesso una risonanza, una possibilità di risonanza nei confronti di questa caratteristica, e se saprà comprendere la sua tradizione in maniera creatrice. Tutto ciò implica che questo popolo, in quanto popolo ‘storico’, si avventuri a esporre se stesso e insieme la storia stessa dell’Occidente, colta a partire dal centro del suo avvenire, nell’originario dominio della potenza dell’essere. E se la grande decisione concernente l’Europa non deve verificarsi nel senso dell’annientamento, potrà solo verificarsi per via del dispiegarsi, a partire da questo centro, di nuove forze storiche spirituali[20].

Ma è questo il significato politico della “ripetizione” della “domanda sull’essere”, il cui soggetto storico è “il popolo metafisico per eccellenza”, cioè il “popolo tedesco” in quanto “popolo storico”. “Chiedere: ‘Che cosa ne è dell’essere?’ significa nientemeno che attuare la ripetizione del cominciamento del nostro esserci storico-spirituale, per trasformarlo in un altro cominciamento”[21]. La difesa del linguaggio, che è la “casa” dell’“essere”, la sua potenza “spirituale”, “diviene lotta spirituale contro l’annientamento dell’Europa”, obiettivo fondamentale, reale e propagandistico, dello Stato nazionalsocialista, il cui sorgere, nel ’33, Heidegger aveva salutato come “il-porsi-in-opera della verità”, nella sua famosa Rektoratsrede. “Il destino del linguaggio, infatti, si fonda su di un sempre rinnovato rapporto di un determinato popolo all’essere; ed è questo il motivo per cui la domanda sull’essere risulta per noi intrecciata, nel modo più intimo, con la questione del linguaggio”[22].
Non è per caso che dopo il ’35 Heidegger non abbia più ripreso, in forma diretta, l’analisi della Vorfrage, “ontologicamente” legata ai contenuti e alle scelte di classe dello Stato nazionalsocialista. Questo perché l’adesione heideggeriana al nazismo non è solo “errore”, “illusione” o “debolezza”, ma il prodotto necessario di una riflessione teorica che sin dal ’27, nella fase più sostenuta della ricostruzione di Weimar, aveva tracciato il piano di una ricomposizione complessiva del pensiero borghese, all’interno e per l’uso capitalistico della crisi, e che, pur dopo la breve parentesi dell’adesione al nazismo del ’33, continua a svilupparsi nel ’35 e, dopo la caduta del nazismo, sino ad oggi.
Con la sconfitta del nazismo, la divisione politica della Germania e dell’Europa, la guerra fredda e la competizione atomica, i referenti storici e politici della Seinsfrage mutano, pur nella continuità dell’analisi teorica e della critica politica: l’“annientamento dell’Europa” ad opera del “demoniaco” russo-americano è avvenuto così com’era stato presagito nel ’35, accentuando l’“oscuramento del mondo” e l’“accecamento dell’essere”; l’alienazione tecnologica e scientifica (marxismo, pragmatismo, neopositivismo) ha vinto sul popolo tedesco, il “popolo storico e metafisico per eccellenza”, distruggendolo nel suo “fondamento storico e spirituale”, distruggendo, nello stesso tempo, l’“essere”, la cui dimora è appunto il linguaggio del popolo tedesco. Nello stesso modo, la riduzione pianificata dell’uomo ad “oggetto” e “massa” ha acquistato una dimensione mondiale, con lo sviluppo della fisica atomica e della biofisica. Questa analisi, che riattualizza e sviluppa ulteriormente, alla luce delle vicende storiche e politiche del dopoguerra, la condizione di alienazione e di crisi da cui e per cui si pone la Seinsfrage, è particolarmente definita in un testo del ’59, Gelassenheit, che riproduce un discorso tenuto a Messkirch il 30 ottobre ’55. Dice Heidegger:

Molti tedeschi hanno perduto la loro patria originaria, sono costretti ad abbandonare i loro villaggi e città, cacciati dalle loro terre patrie. Numerosi altri la cui patria d’origine è salva, ciononostante se ne vanno via, schiacciati dal meccanismo delle grandi città, costretti a stabilirsi nello squallore dei distretti industriali. Sono così diventati estranei alla antica patria d’origine. E quelli che sono rimasti nella patria d’origine? Spesso sono ancora senza patria, al pari di quelli che ne sono stati espulsi… Che ne è ora di coloro che sono stati espulsi dalla loro patria d’origine e di quelli che vi sono rimasti? Risposta: la stabilità dell’uomo d’oggi è profondamente minacciata. Ancora di più: la perdita della stabilità dell’uomo d’oggi è profondamente minacciata. Ancora di più: la perdita della stabilità non è determinata da circostanze esterne e dal destino, né deriva solo dalla negligenza e dal modo di vivere superficiale dell’uomo. La perdita della stabilità proviene dallo spirito dell’epoca, nella quale noi tutti siamo nati […][23].
Può l’uomo, se così stanno le cose, può l’opera umana, ricresce ancora nel futuro sul rinato terreno della patria d’origine e nell’etere, elevandosi cioè all’altezza del cielo e dello spirito? Oppure ogni cosa soggiace alle tenaglie della pianificazione e del calcolo, dell’organizzazione e dell’automatismo?[24].

L’“età atomica”, la “bomba atomica”, l’“energia atomica”, la “fisica atomica e le loro applicazioni tecniche devono realizzare la pianificazione generale”, la quale, attraverso la scienza e la tecnica, sconvolge radicalmente il rapporto dell’uomo col mondo, per cui

il mondo appare come un oggetto, sul quale il pensiero calcolatorio dirige i suoi assalti, ai quali esso no deve poter più resistere. La natura diventa solo un luogo di rifornimento, una fonte di energia per la tecnica e per l’industria.

Ma

la potenza nascosta della tecnica moderna, dice Heidegger, tende nello stesso tempo a distruggere il potere dell’uomo sulla natura e sul mondo. Il problema fondamentale della scienza attuale e della tecnica non è più: dove ci procuriamo la quantità sufficiente di gas, di energia, di materia. Il problema di oggi è: in quale modo possiamo noi dominare e usare la grande energia atomica?… In ogni sfera dell’esserci l’uomo viene trasformato dalla forza degli apparati tecnici ed automatici… questa potenza è cresciuta oltre la volontà e il potere di decisone dell’uomo, perché non è fatto per l’uomo[25].

La divisione politica della Germania, la distruzione della “patria originaria”, la questione dei “profughi”, l’industrializzazione progressiva in conseguenza della ricostruzione capitalistica, la guerra fredda, la minaccia sempre presente della guerra nucleare, sono i termini costanti dell’analisi heideggeriana dell’alienazione e del nichilismo. La condizione umana che in Sein und Zeit era definita attraverso l’“enigma” dell’“incomprensibilità”, è apparsa, nel corso dell’ulteriore storicizzazione “ontologica” della Seinsfrage, sempre più storicamente e politicamente determinata, identificandosi nella situazione storico-politica del “tedesco di oggi”, dimensione fondamentale di un’“epoca storica”, in cui l’uomo è diventato, per usare un’espressione del giovane Marx, “prodotto del proprio prodotto”. La reificazione, per Heidegger, sta nel fatto che l’uomo ha generato una “potenza”, la tecnica, che “non è fatta per l’uomo” e che è “cresciuta oltre il volere e la facoltà di decisone dell’uomo”. Come è possibile, allora, liberare l’uomo dal dominio che la “potenza” che egli ha prodotto esercita su di lui? La risposta di Heidegger è: “die Gelassenheit zu den Dingen”, l’atteggiamento della nostra riflessione interiore con cui diciamo nello stesso tempo “sì e no” alle cose, in modo che “lasciamo gli oggetti tecnici dentro e allo stesso tempo fuori il nostro mondo quotidiano, in quanto Cose che non sono l’Assoluto, ma hanno bisogno del Profondo”[26]. La “potenza” che l’uomo ha prodotto, e che l’uomo può e deve nello stesso tempo “usare” e “negare”, senza rigettare, dicendo ad essa contemporaneamente “sì” e “no”, per non essere schiacciato, resta in se stessa un “mistero”, che riproduce e specifica l’“enigma” dell’“incomprensibilità” costitutiva dell’“esserci”. “In ogni processo tecnico domina infatti un senso, che si estende ad ogni attività umana, un senso, che non l’uomo ha per primo inventato e prodotto. Noi non conosciamo qual è il senso del pauroso crescente dominio della tecnica atomica. Il senso del mondo tecnico è nascosto[27].
Ma questa “apertura al mistero” del senso inumano della potenza che l’uomo ha generato, attraverso la riflessione interiore, che opera come nuova forma della riduzione fenomenologica, mentre da un lato realizza nei fatti la capitolazione pratica dell’uomo di fronte alla tecnica (il “si” al suo “uso”), dall’altro ne mantiene ancora “nascosto” il senso e l’origine, col “no” che “fonda” la tecnica sulla “profondità”, che ne legittima e garantisce la inumanità. Fa parte di questa inumanità la “neutralità” della “potenza” che domina l’uomo: il “senso nascosto” di scienza, tecnica e industria diventa la prospettiva interiore del “pensare autentico”, che riporta, cioè riduce al “profondo” la disumanizzazione dell’uomo, deducendo, così, il “senso” della tecnica, e del suo dominio politico, non dall’uomo, che pure produce la tecnica e la scienza, ma dalla sua “essenza”, “fondando”, cioè giustificando, il dominio del prodotto sul produttore. L’uomo, così, resta dominato dalla “potenza” che ha generato, perché il “senso” della produzione umana non è l’uomo, ma il dominio sull’uomo, la sua reificazione.

G. Braque, Uomo con chitarra

4. Al recupero della dimensione “profonda” del “mistero”, che è l’“essenza” della presente, storicamente determinata disumanizzazione dell’uomo, è finalizzata la pubblicazione di Fenomenologia e teologia. La breve ricostruzione teorica dell’itinerario storico-politico della Seinsfrage, che abbiamo tentato, rovesciando, evidentemente, il rapporto “ontologico” tra la dimensione “ontico-esistentiva” e quella “ontologico-esistenziale” della Seinsfrage, può sembrare, forse, estranea al tema specifico di questi due testi heideggeriani su “filosofia e teologia”. Se riflettiamo, invece, sulla loro importanza per la comprensione complessiva del pensiero heideggeriano, di cui abbracciano i due momenti estremi della Kehre, risulta evidente la necessità di comprendere la complessività del disegno teorico heideggeriano, dagli anni ’20 agli anni ’70, al fine di rimettere in discussione, chiarendoli storicamente e politicamente, fondamentali assunti teorici, quale, in particolare, quello della alienazione-reificazione. La distinzione e definizione fenomenologico-esistenziale di filosofia e scienza, con particolare riferimento alla teologia cristiana ed al tema della fede religiosa, è ripresa nella lettera del ’64, nella ricerca di una “originale”, “essenziale” e “integrale” dimensione extrascientifica del pensiero e del linguaggio, come risposta disalienante alla reificazione della scienza e della tecnica. Ma è questa dimensione “autentica” del pensiero e del linguaggio “non oggettivanti” quell’“essenza” dell’“essere” che la Gelassenheit svela come “mistero” che “fonda” la reificazione. Laddove la Seinsfrage, come “disvelamento dell’essere dell’ente”, esprime proprio quella riduzione fenomenologico-esistenziale che la Gelassenheit opera nei confronti delle “Cose”, quando, pur liberandole dal feticismo del proprio essere (l’“Assoluto”), le nasconde nel feticismo dell’interiorità del “mistero” (il “Profondo”). L’indubbio significato mistico-religioso della categoria del “profondo” rende particolarmente significativa la rilevanza che Heidegger oggi attribuisce, proprio con lo scritto Fenomenologia e teologia, alla fede cristiana, in quanto il confronto filosofia-teologia non è un caso particolare del confronto generale filosofia-scienza, ma rivela una problematicità nel rapporto tra gli “oggetti” specifici della filosofia e della teologia, che sbocca, nella lettera del ’64, nell’affermazione per cui la teologia ha una funzione decisiva, accanto alla poesia, nel disvelamento della “presenza” originaria dell’“Essere”, attraverso il pensiero e il linguaggio “non oggettivanti” che le sono propri, in quanto essa “non è una scienza naturale” e “non deve probabilmente essere in generale una scienza”. Infatti, ricerca della dimensione “non oggettiva” del pensiero, e del linguaggio della teologia attuale – che è il tema della lettera del ’64 –, usa la distinzione “fenomenologico-ontologica” tra filosofia e scienza, spiegata nella conferenza del ’27, per la liberazione del pensiero “originario” dal dominio feticistico della scienza e della tecnica. L’esigenza, tuttavia, di recuperare l’“essenza” non più dall’“uomo”, ma a partire dal “mistero” e dal “non senso”, riduce l’“essenza” alla “profondità” del pensiero e del linguaggio “non oggettivi”. In questo recupero, che traduce la riduzione-deduzione fenomenologico-esistenziale nella operazione di interiorizzazione, poesia, religione e filosofia tornano ad occupare una nuova centralità, non per liberare effettivamente l’uomo dalla sua disumanizzazione nella scienza, nella tecnica e nell’industria, ma per dare alla pianificazione del suo “non senso” il “fondamento” del “mistero”.
La negatività (reificazione, crisi, nichilismo), appare ancora una volta il punto di vista “nuovo” da cui e per cui è possibile una ricomposizione, cioè una presa di coscienza complessiva della situazione storica presente, per riproporre, come fa Heidegger, contro Nietzsche, non solo la “ripetizione” del problema dell’“essere”, ma anche la “ripresa” della validità dei valori tradizionali (arte, religione e filosofia); la negatività, cioè, da “limite” dell’essere, oggetto di “superamento” (l’Aufhebung hegeliana), diventa il “fondamento” della ricomposizione dell’“uomo”, non soltanto il “punto di partenza”, ma anche il “punto di arrivo” della ricerca della “totalità” all’interno dell’ordine esistente (l’“essere”). Così come l’uso capitalistico e borghese della crisi del capitalismo e della borghesia è il presupposto storico-sociale della nuova “ontologia fondamentale”, nello stesso modo la rinascita di arte, religione e filosofia rinnova la coscienza borghese e dell’irreversibilità della reificazione.
L’analisi dell’alienazione tecnologica e della crisi politica e sociale mondiale, la risposta che la Glessenheit dà alla crisi-alienazione con l’“uso” che essa consente della crisi e dell’alienazione al fine di giustificarne la necessità, costituiscono, come abbiamo visto, il contenuto storico, politico e ideologico della “domanda preliminare” (Vor-frage) “Che ne è dell’essere?” che la Seinsfrage ancora oggi solleva, e sulla quale ancor oggi ha senso porsi la “domanda fondamentale” (Grund-frage) della metafisica: “Perché l’essente e non piuttosto il nulla?”. Il “superamento” della metafisica non è la cancellazione della sua “domanda fondamentale”, ma la scoperta che alla base di questa “domanda fondamentale” c’è un’altra domanda, la Vor-frage, che è la domanda sull’essere stesso dell’essente che è messo in discussione. Ma la “domanda preliminare” storicizza non solo l’essere dell’ente, ma anche il porsi stesso della domanda sull’essere, cioè la Seinsfrage, che è così ricondotta, dall’interno della sua problematica teorica, a fare i conti con i livelli reali della sua origine storica (alienazione, crisi, ecc.), riscoprendo il “troppo umano” della Seinsfrage. Ma la condizione di “estraneamento” rende sempre ancora problematico il recupero dell’“essere”, che si definisce, pertanto, nella sua impossibilità come “essere-per-la-morte”, come sua cancellazione-negazione. Il linguaggio, che è la possibilità di “pensare” l’essere, costituisce allora il presupposto “storico-spirituale”, la “casa” dell’“essere”, per cui la ricerca del pensiero e del linguaggio “non oggettivi” deve porre la condizione di poter “pensare” l’“essere”. È il venir meno di questa possibilità, espressa nell’ “estraneamento”, che tuttavia diventa, per la Seinsfrage la prima, fondanentale determinazione-manifestazione (la “verità”) dell’“essere”, cioè la “dimenticanza dell’essere”. Questa condizione di smarrimento, o estraneazione (reificazione, crisi, ecc.), è la costituzione “ontologica” dell’“esserci”, il “senso” dell’“essere”, in quanto Heidegger ha fissato nel disegno teorico dell’“ontologia fondamentale” la condizione della crisi reale, strica, sociale e politica del moderno ciclo del capitale, usando l’“estraneamento” e la “dimenticanza dell’essere” per definire la “verità” dell’“essere”. La storicità, che la storia della metafisica esprime attraverso le varie interpretazioni dell’essere, è la storia della “dimenticanza” e della “memoria” dell’“essere”, che è la storia dell’“essere” attraverso la “dimenticanza” di questo pensiero. La storia dell’“essere” è la storia del nichilismo, “dimenticanza” e “memoria” dell’“essere” in quanto “presenza” della “totalità”[28].
Heidegger dichiara d’essere il primo pensatore dell’“Occidente” che ha pensato questa “verità” dell’“essere”: la Seinsfrage è la ricerca della possibilità di questo pensare, che Heidegger comprende, nella misura in cui la crisi del capitalismo, e il conseguente uso capitalistico della crisi, hanno rivelato il “senso dell’essere” come “dimenticanza”, “oscuramento del mondo”, “caduta degli dei”, “depotenziamento dello spirito”. La reificazione, così come la definisce Lukács in Storia e coscienza di classe, per tanti versi molto vicina all’“estraneamento” di Heidegger, definisce storicamente la problematicità del “senso” dell’“essere”, la Vor-frage che accompagna la Seinsfrage. La liberazione dell’uomo, dice Heidegger, non sta nella negazione della tecnica e della scienza, né del loro “potere”, ma nella “comprensione” della loro “essenza” attraverso la dialettica fenomenologica della Gelassenheit (il “si” e il “no”), la capacità del pensiero di accettare la realtà per quella che è, nella sua negatività, “usandola”, deassolutizzandola, con quella coscienza dell’assoluta relatività delle “cose”, o infinita problematicità, in cui rivive, con segno opposto, la teoria del “disincantamento” di Max Weber. La Seinsfrage mostra a questo punto l’ideologia di classe che la guida, nelle categorie logiche e storiche del suo impianto teorico: la distinzione tra “essere” e “dover-essere”, l’“avalutatività” di scienza e tecnica, la comprensione dell’“essere” attraverso la “coscienza”, infine, la scissione tra teoria e pratica. Commentando un brano delle Tesi su Feuerbach di Marx, dice Heidegger:

Nel passo citato e nel modo in cui è stato messo in pratica, si perde di vista che una trasformazione del mondo presuppone un mutamento della rappresentazione del mondo e che una rappresentazione del mondo si ottiene soltanto per mezzo di una sufficiente interpretazione di esso.
Ciò significa che Marx si fonda su una ben determinata interpretazione del mondo per esigerne la ‘trasformazione’, e perciò questo passo si dimostra un passo infondato. Fa l’impressione di essere pronunciato con risolutezza contro la filosofia, mentre nella sua seconda parte è presupposta, senza essere espressa, proprio l’esigenza di una filosofia[29].

Il recupero disalienante della “totalità-presenza”, attraverso “il pensiero e il linguaggio non oggettivanti” della “poesia”, ricompone il “divino” che la teologia, sino a quando si è posta e realizzata come scienza, ha necessariamente coinvolto nella generale “dimenticanza dell’essere”, entro cui è svolta la “storia dell’ontologia”. Se, come conclude Heidegger questo volume, citando Rilke, il “canto è l’esserci”, allora anche la filosofia, irrimediabilmente condannata alla “dimenticanza dell’essere”, viene sacrificata alla comprensione poetico-religiosa della “presenza” del reale. Per questo, la riflessione storica e teorica sul rapporto tra fenomenologia e teologia, a cui Heidegger invita con questo scritto, riattualizzando la problematicità del suo itinerario storico e teorico attraverso le diverse articolazioni che hanno assunto le componenti storiche e teoriche principali, la fenomenologia e la teologia, ripropone il problema della Kehre, l’assunzione, cioè, della “totalità originaria” del “pensiero e del linguaggio non oggettivi”[30]. Il “superamento” heideggeriano della “metafisica” – che vuol dire anche di scienza, tecnica, filosofia, teologia – è, nello stesso tempo, il superamento “fenomenologico-ontologico” della fenomenologia e della teologia. La Kehre heideggeriana è questo “superamento”, la sua problematicità, tentativi, errori, incertezze, ritorni e riprese sono la problematicità stessa del pensiero heideggeriano: da Kierkegaard a Nietzsche, Heidegger si è fondamentalmente e sempre ritrovato coinvolto nell’impossibilità, propria del pensiero borghese, di superare le contraddizioni specifiche della sua coscienza, cioè della definizione di una alternativa reale all’affermazione di Nietzsche “Dio è morto”.
Questa introduzione non pretende di entrare nella discussione interna di questa problematica, ma soltanto di enuclearne i presupposti storici e teorici.


[1] Cfr. K. Löwith, Heidegger Denker in dürftiger Zeit, Götingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1960 (trad. it. Saggi su Heidegger, Torino, Einaudi, 1966). Sulla Kehre heideggeriana, cfr., in particolare, la prefazione heideggeriana al libro di W.J. Richardson, Heidegger. Through Phenomenology to Thought, The Hague, Nijhoff, 1963, pp. IX-XXIII; W. Marx, Heidegger und die Tradition, Stuttgart, Kohlhammer, 1961, pp. 165-208.

[2] Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p.3.

[3] Ivi.

[4] M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Niemeyer, 1963, pp. 1-4(trad. it, Torino, UTET, 1969, pp. 50-56).

[5] Il limite della ricostruzione tentata, nel nostro precedente Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. L’ontologia fondamentale, Milano, Silva, 1964, della Seinsfrage heideggeriana, sta nel carattere “esistenziale” della crisi ricostruita come suo presupposto storico-soggettivo. La necessità di storicizzare la crisi, per comprendere non solo l’origine storica, ma anche il significato teorico della Seinsfrage, come specifica teoria della crisi, è premessa necessaria ad una rilettura del pensiero heideggeriano che voglia sottrarsi ad ogni possibile ricaduta del pensiero in nuove forme di “sottigliezza metafisica e di capricci teologici” (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”).

[6] M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., p. 4 (trad. it., p. 56)

[7] Ivi, p. 1; (trad. it., p. 50); sul significato dell’“enigma” heideggeriano, cfr. il nostro già citato Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger, p. 123.

[8] F. C. Sell, Die Tragödie des deutschen Liberalismus, Stuttgart, 1953.

[9] Colloquio con M. Heidegger, Roma, Città Nuova Editrice, 1972, p. 74.

[10] Cfr. Operai e Stato, Milano, Feltrinelli, 1972, in particolare i saggi di Sergio Bologna e Antonio Negri; M. Cacciari, Introduzione a G. Lukács, Kommunismus 1919-1920, Padova, Marsilio, 1972.

[11] S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito dalle origini del movimento consiliare, in Operai e Stato, cit., pp. 13-46.

[12] M. Heidegger, Vorwort a Vom Wesen des Grundes, Frankfurt a. M. Klostermann, 1955 (trad. it., Torino, UTET, 1969, p. 623). È merito di Lukács aver mostrato la connessione del pensiero di Heidegger col tema dell’alienazione (cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, p. XXIII), che, tuttavia, deve essere specificata all’interno dell’uso capitalistico della crisi.

[13] M. Heidegger, Sein und Zeit, cit.; cfr. Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger cit., pp. 150 ss.

[14] A. Müller-Armack, Diagnose unserer Gegenwart, Gütersloh, 1949.

[15] Cfr. G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger. Dokumente zu seinem Leben u. Denken, Bern 1962, p. 23-63. Nello scritto Arbeitsdienst und Universität, dello stesso anno, il “servizio del lavoro”, il “servizio della difesa” (Wehrdienst) e il “servizio del sapere” (Wissensdienst) sono le mediazioni tra “uomo”, “popolo” e “Stato” (pp. 63-64). In Bekenntnis zu Adolf Hitler und dem Nationalsozialistischen Staat, “verità” e “volontà” del “popolo tedesco” sono “la più energica dimostrazione” della realtà dello Stato nazionalsocialista (pp. 148-150). Sul significato “politico” del pensiero di Heidegger, cfr. anche A. Schwan, Politische Philosophie im Denken Heideggers, Köln und Opladen 1965. Se da un lato la reazione critica di Croce all’adesione heideggeriana al nazismo si qualifica sul piano morale, come appare dallo scambio di lettere che il Croce ebbe col Vossler (cfr. G. Schneeberger, op. cit., pp. 110-111), dall’altro la critica di Lukács, e del marxismo sovietico, pur individuandone le fondamentali radici di classe, la spiega ideologicamente come prodotto dell’irrazionalismo e dell’imperialismo (G. Lukács, La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1959, pp. 495-531; W. Heise, Aufbruch in die Illusion, Berlin 1964, pp. 139 ss.; G. Mende, Studien über die Existenzphilosophie, Berlin 1959). L’individuazione della “crisi”, come specificazione economica e sociale della mediazione ideologica dell’irrazionalismo all’interno dell’imperialismo, che per Wolfgang Heise e Georg Mende fanno, rispetto a Lukács, non riesce, tuttavia, a concretizzarsi nell’analisi del ruolo specifico che la “crisi” ha non solo per il rinnovamento dell’ideologia borghese, ma anche per il mutamento della strategia del capitale mondiale. Utili indicazioni, in questo senso, si trovano nel saggio di M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in “Contropiano”, 1, 1969, pp. 131-200.

[16] Cfr. il nostro saggio citato Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger, cit., pp. 200 ss.

[17] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia, 1968, pp. 55-56.

[18] Ivi, p. 47

[19] Ivi, pp. 47-48.

[20] Ivi, pp. 48-49.

[21] Ivi, p. 49.

[22] Ivi, p. 81.

[23] M. Heidegger, Gelassenheit, Pfüllingen, Neske, 1959, p. 17.

[24] Ivi, pp. 21-22.

[25] Ivi, p. 25.

[26] Ivi, pp. 25-26. Cfr. A. Schwan, op. cit., pp. 146-175.

[27] La teologia, che nel ’27 è una “scienza ontica”, nel ’64, invece, “non deve probabilmente essere in generale una scienza”: questa diversità di concepire la teologia, che nasce dalla Kehre, esprime, in realtà, la coerenza interna della Seinsfrage, la sua esigenza di ricomposizione teorica della “condizione umana”, cioè dell’“esserci”, la cui “totalità” è il tema costante del pensiero heideggeriano. Ma è su questa esigenza, di cui abbiamo mostrato il significato politico, che si innesta l’attualità della teologia del cristianesimo come prospettiva e contesto culturale ed antropologico-esistenziale in cui Heidegger specifica la “totalità”. Essa spiega il rifiuto heideggeriano dello storicismo liberale, e, nello stesso tempo, spiega, sul piano storico-culturale, la “crisi di valori” della Germani di Weimar (cfr. l’opera postuma di C. Antoni, L’esistenzialismo di Heidegger, Napoli, Guida, 1972, pp. 9 ss.), la “rinascita” di Kierkegaard e le nuove deformazioni irrazionalistiche di Nietzsche (cfr. il libro di E. Bertram, Nietzsche. Versuch einer Mythologie, Berlin, Georg Bondi, 1920). Il carattere “ontologico” di questa esigenza di comprensione teologica della totalità esprime, indubbiamente, il tentativo di superare la tradizione biblico-giudaico-agostiniana della teologia cristiana, presente nell “onto-teo-logia” di Hegel e nel “Dio” di cui Nietzsche ha dichiarato la “morte” (cfr. O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Pfüllingen 1963, pp. 190-235), ma, nello stesso tempo, non è in grado di garantire una realtà alternativa teorica col ritorno al pensiero greco premetafisico, recuperando il “sacro-divino” al di fuori della scienza e della filosofia.

[28] M Heidegger, Nietzsche, II, Pfüllingen, Neske, 1961, pp. 481 ss.

[29] Colloquio con Heidegger cit., p. 79. Questa deformazione del rapporto teoria-prassi, in conseguenza di una concezione ontologicadella teoria, e di una visione pragmatica della pratica, propria della tradizione neokantiana esprime, sul piano storico-culturale, la dipendenza del pensiero heideggeriano dalle tendenze più conservatrici della Kultur tardo-borghese di Weimar (cfr. G. Anders, Nihilismus und Existenz, in G Schneeberg, op. cit., pp. 257-267; C. Antoni, op. cit., pp. 261 ss.)
La riduzione del marxismo a ideologia tecnocratica (cfr. il Brief über den Humanismus, Frankfurt a. M., Kostermann, e l’Einführung in die Metaphysik cit.) è l’ideologia dominante del cosiddetto “liberalismo spirituale del tardo Ottocento, che porta la scienza sociale borghese (storia, sociologia, economia politica) a chiudersi nel ruolo apologetico della irrazionalità del nascente capitalismo monopolistico e dell’imperialismo (cfr. il nostro Weber e Lucács, Bari, De Donato, 1971, pp. 1-12 e 75-98).

[30] Sulla fenomenologia heideggeriana, cfr. H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement, Nijhoff, The Hague, 1960, I; sull’ontologia fenomenologica, O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers cit.; A. Chapelle, L’ontologie phénoménologique de Heidegger, Paris, 1962. L’originalità teorica della fenomenologia (Husserl e Heidegger), rispetto alla costruzione “eterologica” del “trascendentale” del criticismo, è sottolineato da Friederich Kreis, in Phänomenologie und Kritizismus, Tübingen 1930, mentre i rapporti più generali tra fenomenologia di Husserl, di Heidegger e la “filosofia della vita” (Dilthey) sono riconosciuti da G. Misch in Lebensphilosophie und Phänomenologie, Leipzig und Berlin 1931.
Una analisi ampia della funzione assolta nel pensiero di Heidegger dalla teologia (Barth e Bultmann), si trova in H. Ott, Denken und Sein, Zollikon 1959, mentre la ricostruzione critica di una “antropologia teologica” nell’ontologia heideggeriana, centrata sulla nozione di “essere-per-la-morte” è fatta da K. Lehmann in Der Tod bei Heidegger und Jaspers, Inauguaral- Dissertation, Heidelberg, 1938, pp. 88-92; sul carattere dell’antropologia heideggeriana, cfr. il saggio di H. Fahrenbach, Heidegger und das Problem einer “philosophischen” Antropologie, in Martin Heidegger zum 80. Geburtstag, Frankfurt a. M., Klostermann, 1970, pp. 97-131. Sui problemi teologici che il pensiero di Heidegger porta con sé, cfr., oltre lo scritto di H. H. Schrey, Die Bedeutung der Philosophie Martin Heideggers für die Theologie, in Martin Heideggers Einfluss auf die Wissenschaften, Bern 1949, pp. 9-21, anche il saggio di H. Ott, Die Bedeutung von Martin Heideggers Denken für Methode der Theologie, in Martin Heideggers zum 80. Geburtstag cit., pp. 27-38.